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#SINDACATO: Bentivogli “Il sindacato che conta è nelle fabbriche, non in tv”

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Intervista de Linkiesta al Segretario Generale Fim Cisl Marco Bentivogli
di Lidia Baratta

11/12/2014

“Il sindacato che conta è nelle fabbriche, non in tv”
Il segretario Fim Cisl: “Non è detto che chi come Landini urla in tv, poi sia più forte in fabbrica”

C’è un altro emisfero dei metalmeccanici oltre quello della Fiom di Maurizio Landini. È l’altra metà del mondo delle fabbriche, quella della Federazione italiana metalmeccanici della Cisl, che non vediamo in tv o in piazza negli scioperi generali, ma è la maggioranza nei tavoli delle principali crisi aziendali, dall’Ast di Terni all’Alcoa. Alla guida della Fim Cisl, 231.349 iscritti, è arrivato da poco Marco Bentivogli, 44 anni, veneto, prima leader dei giovani metalmeccanici del sindacato. Nel 1998, a soli 28 anni, criticava già i leader confederali «troppo legati alla politica» e «insensibili alle richieste dei giovani». Più di 15 anni dopo, appena eletto segretario nazionale dei metalmeccanici della Cisl, ha annunciato di voler costruire un “sindacato 2.0”, più aperto e inclusivo, e di voler accogliere la sfida di Matteo Renzi, che «sbaglia a non relazionarsi con chi sta sul campo». «Il sindacato che grida in tv», dice, «non fa più vertenze di noi. Siamo la prima organizzazione ai tavoli dell’Ast e dell’Alcoa, dove la Fiom è al secondo posto. E siamo secondi all’Ilva, dove la Fiom è solo la quarta organizzazione. Eppure sui giornali e in tv si rappresenta solo un certo tipo di sindacato che si contrappone in maniera rituale alle proposte del governo senza cercare soluzioni, con il rischio che ci sia solo un’eroica sconfitta dei sindacati. Noi invece puntiamo alla vittoria dei lavoratori».

Segretario, esiste anche un altro mondo dei metalmeccanici, quindi…

Certo. La Fim Cisl è sempre in testa nelle vertenze, eppure c’è una scarsa rappresentazione mediatica del nostro mondo. C’è una ricerca spasmodica dello stereotipo del sindacalista esasperato, rappresentato molto bene dall’imitazione che Maurizio Crozza fa di Landini e Camusso. Ma il fatto che faccia più scioperi o vada di più in tv non significa che la Fiom e il mio collega Landini facciano più vertenze di noi. Siamo la prima organizzazione all’Ast di Terni e all’Alcoa. All’Ilva invece la prima è la Uilm, secondi noi, terza la Usb, quarta la Fiom. Eppure oggi il minutaggio in tv del segretario della Fiom supera quello di tutto il sindacato. È chiaro che viene invitato come personaggio politico, come rappresentante di una certa sinistra, e non sindacale. Ma l’affermazione del sindacato si fa nelle fabbriche, non da Santoro.

Pare che Landini, tra l’altro, il 3 dicembre scorso abbia abbandonato il Tavolo sull’Ast di Terni al ministero dello Sviluppo economico per andare negli studi di Ballarò, e che il giorno dopo non si sia presentato all’assemblea perché era a Coffee Break, su La7.

Il rischio è che la mediatizzazione della vita sindacale diventi troppo centrale, dando visibilità ai personaggi e non alle vertenze. E il sindacato stesso rischia di essere prigioniero dei suoi stessi personaggi. Prima della crisi, lavoro e sindacati erano scomparsi dal mondo dell’informazione, ora si dà solo una rappresentazione esasperata del sindacalismo più simbolico, che poi è anche più innocuo. Bisognerebbe chiedere la par condicio nel servizio pubblico non solo per la politica, ma anche per la rappresentanza sociale. Noi vogliamo superare la denuncia fine a se stessa e costruire soluzioni. Davanti al disagio e alla disperazione, dire che andrà peggio di certo non aiuta.

Quindi non è d’accordo con lo sciopero generale del 12 dicembre.

La mobilitazione deve essere indirizzata a obiettivi precisi. Gli scioperi così come quelli proclamati da Cgil e Fiom sono grandi calderoni di obiettivi, dal dissesto idrogeologico fino alla legge di stabilità e il Jobs Act, che tra l’altro sono già stati approvati. Sono risposte rituali e automatiche alle chiusure del governo, che non fanno altro che rafforzare Renzi e le sue motivazioni di chiusura nei confronti del sindacato. Noi vogliamo accogliere la sfida di cambiamento lanciata da Renzi, facendogli capire che sbaglia a non volersi relazionare con chi sta sul campo. Quando si proclama uno sciopero, bisogna farlo con pochi obiettivi e chiari, tracciando un percorso perché siano raggiungibili.

Ad esempio?

Il 30 settembre abbiamo manifestato a piazza Montecitorio per chiedere al governo di fare ripartire l’industria, perché se non riparte l’industria non sarà certo il Jobs Act né i decreti a creare lavoro. Da fine 2008 a oggi si sono persi 600mila posti di lavoro nell’industria e 1/3 del tessuto industriale. Questo è avvenuto non per colpa dell’articolo 18, ma perché nel settore non è più conveniente investire capitali. Abbiamo il costo dell’energia più alto d’europa, infrastrutture da Paese sottosviluppato, una burocrazia eccessiva e banche che anziché fare da volano per le imprese e i cittadini, continuano nella stretta creditizia. Il 2, il 3 e il 4 dicembre scorsi invece abbiamo organizzato incontri a Firenze, Milano e Napoli per parlare di come il Jobs Act e la legge di stabilità possano essere migliorati. Manifestazioni con obiettivi chiari, appunto.

Qual è il suo giudizio sul Jobs Act?

Di sicuro restano da modificare le parti sul demansionamento e il controllo a distanza. L’introduzione del contratto a tutele crescenti, a patto di sfoltire la giungla delle altre forme contrattuali e cancellare la precarietà legalizzata, ci sembra un passo avanti. La legge delega contiene i principi in base ai quali fare le cose, il rischio è che venga tradita. L’obiettivo deve essere cancellare la precarietà a favore di una maggiore stabilità. Per la stesura dei decreti attuativi il governo dovrebbe quindi aprire un confronto con i sindacati. Un confronto non fumoso, ma concreto. Ricordiamoci che già l’ex ministro Elsa Fornero non aveva ascoltato il sindacato, facendo grossi errori tecnici.

E sulla legge di stabilità?

La cosa strana è che la Cgil non ha scioperato contro le leggi di stabilità dei governi precedenti, che erano molto più impegnative di questa, e sciopera invece contro questa che prevede comunque un taglio delle tasse di 18 miliardi e risparmi sull’Irap. Quello che non va assolutamente bene nella legge di stabilità è il conferimento del Tfr in busta paga, quando invece dovrebbe essere obbligatorio accantonarlo nei fondi pensione integrativi. Con il sistema contributivo dopo 45 anni di lavoro regolare e continuativo, la pensione dell’Inps sarà il 45% dell’ultimo stipendio. Se non avremo una pensione integrativa, la pensione dell’Inps sarà molto simile alla pensione sociale. Il fatto che Renzi non si renda conto di questo è molto deludente.

Al momento della sua elezione ha parlato di sindacato 2.0. Cosa significa?

Significa chiudere con un sindacato che è una brutta riedizione del modello sindacale degli anni Settanta. Se vogliamo muoverci verso il futuro, c’è una necessità di discontinuità rispetto al sindacato così com’è oggi. Abbiamo davanti a noi una grande sfida di cambiamento. Oggi le imprese sono microimprese e il lavoro è sempre più frammentato. Su 100 nuovi assunti, 85 lo sono con contratti precari. Il sindacato deve dare risposte a questo mondo. Deve essere aperto e inclusivo, rappresentare quegli invisibili con cui finora non ha mai parlato, far entrare nuova aria dalla finestra e non chiudersi nella propria autoreferenzialità. In questi anni si è consumata una grande ipocrisia: sono state fatte riforme delle pensioni, della finanza pubblica e del debito, scaricando tutti i costi sulle nuove generazioni. Così come stanno le cose, è molto difficile che un giovane si iscriva al sindacato.

In che modo la Fim Cisl sta cercando di avvicinarsi ai giovani?

Abbiamo creato ad esempio un settore che si occupa di formazione sindacale dei giovani rappresentanti in fabbrica. Il dualismo esiste anche nelle fabbriche, sia in termini di tutela sia in termini di linguaggi. Il vecchio sindacalese non è comprensibile per i ragazzi. Torniamo a parlare linguaggi comprensibili a tutti. Altrimenti il risultato è che, come accade in tutta Europa, solo un giovane su 10 si iscrive al sindacato.

Ma ci sono ancora i giovani nelle fabbriche?

Anche se negli ultimi anni ci sono state poche assunzioni, tramite percorsi di ristrutturazione pesanti che hanno mandato gli over 56 in mobilità si è comunque abbassata l’età media dei lavoratori. Di giovani nelle aziende ce ne sono tanti e abbiamo anche tante rsu giovani. I contratti di nuova assunzione sono soprattutto l’interinale e il contratto a tempo determinato. Quello che non decolla è l’apprendistato. Va ancora definita la questione del riconoscimento dei crediti formativi nella formazione professionale.

Come segretario dei metalmeccanici, quanto punterà sulla contrattazione aziendale e quanto su quella nazionale?

La contrattazione aziendale nella cornice del contratto nazionale esiste già. Siamo di fronte a una ridiscussione del modello contrattuale italiano. Bisogna trovare modelli che riescano a tenere insieme diversi tipi di aziende. Dobbiamo far sì che le aziende non fuggano dai contratti nazionali, esigendo il rispetto delle tutele per tutti. Ma potremo mantenere la contrattazione nazionale se come sindacato sapremo semplificare le 400 tipologie di contratti che esistono oggi. Altrimenti questo modello rischia di essere spazzato via.

Tra i temi più caldi in questo momento ci sono l’industria dell’acciaio e dell’alluminio. Avete chiuso trattative importanti, ma altre sono ancora aperte.

A Piombino l’arrivo dei capitali algerini di Cevital è un fatto positivo per i 1.860 lavoratori. Anche l’accordo del 4 dicembre per l’Ast di Terni è importante, perché cancella la strategia di licenziamenti e tagli salariali precedenti. Chi vuole può uscire con incentivi da 80mila euro e può richiedere la mobilità, ma la cosa più importante è il piano industriale che prevede la presenza di due forni e una capacità produttiva da 1 milione di tonnellate in su. Resta ancora aperta la trattativa sulla Alcoa con la Glencore. Mentre sull’Ilva noi abbiamo spiegato che la nazionalizzazione non può essere la soluzione. L’intervento pubblico attraverso Cassa depositi e prestiti deve essere parziale e temporaneo, con l’aggiunta di investitori esterni.

Qual è il fil rouge che lega tutte queste crisi aziendali?

Anzitutto manca la capacità politica di risoluzione dei problemi. C’è anche la necessità della certificazione dei prodotti in base alla destinazione d’uso per evitare il dumping soprattutto da parte dei Paesi extraeuropei. E poi ci sono i problemi di cui parlavamo prima, dal costo dell’energia alle infrastrutture. Problemi che nel settore siderurgico devono tutti essere moltiplicati per cento. Il problema, come abbiamo detto più volte, è che se salta la siderurgia salta tutto. Bisogna trovare buone ragioni perché le famiglie della siderurgia tornino a investire nelle imprese del settore. Questo finora è avvenuto soltanto nel caso della Ferriera di Servola, a Trieste, acquisita dal gruppo Arvedi di Cremona. Sono queste le cose di cui il sindacato deve parlare.

E invece di cosa si parla nel sindacato?

C’è una narrazione sindacale fine a se stessa che interessa poco lo spirito pragmatico dei lavoratori. Un sindacato fatto di gesti simbolici e politici, ma che non è capace di stare nella realtà. E i risultati si vedono nelle elezioni delle rsu e nelle adesioni agli scioperi, dove vinciamo noi e non la Fiom. Un esempio, nelle ultime elezioni delle rsu degli stabilimenti Alenia di Cameri, dove si assemblano gli F35, la Fim è risultata la prima organizzazione. Il sindacato deve far sì che i lavoratori si rendano conto dell’utilità del sindacato stesso. Camusso di recente ha paragonato Renzi alla Thatcher. Ma così facendo Camusso e Landini candidano il sindacato alla stessa fine del sindacato dei minatori inglesi, sconfitto gloriosamente dalla Thatcher. Il sindacato venne cancellato, il leader venne nominato baronetto dalla regina, ma la Thatcher governò altri dieci anni. Una vittoria per il sindacalista, ma una sconfitta per i lavoratori. Noi non puntiamo alle eroiche sconfitte, ma alla vittoria dei lavoratori.

Quale sarà la sua prima azione per creare il sindacato 2.0?

Solo in Italia esiste la categoria dei metalmeccanici da una parte, e quella dei tessili, chimica ed energia dall’altra. Entro il 2015 creeremo un unico sindacato dell’industria come già accade nel resto d’Europa.

E ci sarà lei a capo di questo grande sindacato dell’industria?

Questo si discuterà con il segretario dei chimici, tessili ed energia.

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