Intervista a Marco BENTIVOGLI: il nuovo Carniti del sindacato italiano
Il sindacato non è solo Landini
Il nuovo Pierre Carniti parla di sindacato nei consigli di amministrazione, di innovazione e della formazione per i lavoratori come diritto. Marco Bentivogli, 45 anni, da Conegliano Veneto (Tv), a capo dei metalmeccanici Cisl, si esprime in un italiano dall’inflessione indecifrabile, tante sono state le zone in cui ha lavorato, dal Veneto, all’Emilia, alle Marche.
Domanda. Allora Bentivogli, questa nuova federazione toccherà a lei…
Risposta. Guardi, si sentono dire tante cose, ne discuteremo serenamente, ma più chi la guiderà è interessante il progetto.
D. Vale a dire?
R. Che la Cisl si riorganizza: noi la riforma del sindacato la facciamo già.
D. Lei, in passato, ha criticato la proliferazione delle sigle.
R. Quando sono troppe, favoriscono solo la deriva corporativa, la competizione di casacche per la creazione di poltrone. Tanti sindacati e sindacatini non aiutano la causa dei lavoratori, anzi la indeboliscono. Le faccio un esempio.
D. Meglio.
R. Il fatto che alle trattative in Fiat-Fca siedano i rappresentanti di sette, dico sette, sindacati non aiuta certo, anzi indebolisce. Tanti sindacati sono sinonimo di corporativismo di casta e non di pluralismo, veda gli 11 sindacati dei dipendenti della Camera.
D. A cosa e a chi serve questa deriva?
R. Diciamo la verità, serve a creare ceto sindacale, la moltiplicazione delle sigle si porta dietro quella degli incarichi.
D. La nuova legge sulla rappresentanza, con gli sbarramenti, qualche effetto lo produrrà.
R. Certo, le soglie del 5% sono importanti, ma quest’azione deve partire dal basso, dai sindacati stessi. Non bisogna moltiplicare le sigle ma, semmai, aumentare quelli che chiamo i nostri «diretti di produzioni», ossia i sindacalisti nella fabbrica, e quelli vicino ai lavoratori, che sono sempre di meno. Il baricentro del sindacato non può che essere il luogo di lavoro.
D. Voi cosa fate, per questo?
R. Puntiamo sul rinnovamento, per questo siamo, dal 1981, l’unica federazione di categoria con una scuola quadri nazionale, ad Amelia (Tr). Otto settimane a lezione: se non sai leggere un bilancio aziendale e vuoi fare quattro slogan, la Fim non è il posto più adatto per te.
D. Allora lei non si è offeso quando il premier, Matteo Renzi, ha parlato del sindacato unico?
R. No, tutt’altro. E guardi che io sono un «fimmino», un cislino orgoglioso della sua storia, ma che cosa serve, oggi, marcare le differenze se non a moltiplicare i gruppi? Perché se lei va nello specifico, fra noi, la Cgil e la Uil non esistono differenze così forti. Se si eccettua Maurizio Landini, ovviamente per la scelta di tenere il piede in due scarpe.
D. Col quale lei è molto polemico. In una recente intervista al Foglio, ha definito il suo «sindacato da intrattenimento».
R. Guardi, quello di Landini è un problema, serio, di accesso al mondo dell’informazione.
D. Perché è troppo in tv?
R. Abbiamo scritto ad Agcom e alla Commissione di vigilanza della Rai. C’è una sproporzione antipluralista per cui, se si eccettua l’Albero Azzurro su Rai Yo Yo, il canale per bambini, il segretario della Fiom è apparso in tutti i programmi. E non solo, anche sulla La7 è la stessa cosa.
D. Come se lo spiega?
R. Evidentemente c’è un «Editto bulgaro» al contrario, le élite dei salotti radical hanno confezionato un personaggio, a livello quasi mitologico, ricostruendo biografie improbabili.
D. Cosa proporrebbe?
R. Dare visibilità a chi, dentro il sindacato, con coraggio, fa un bagno di umiltà e parte dalle nostre di inadeguatezze, prima di puntare il dito. Ma quei salotti vogliono dei finti Don Chisciotte con lo scolapasta in testa, tanto simbolici quanto innocui.
D. E le hanno risposto, Agcom e Vigilianza Rai?
R. Agcom ha risposto ma non ha fornito dati. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, di M5S, non ha neanche risposto. Aspettiamo fiduciosi.
D. Landini però vuol fare un partito, anzi una coalizione sociale: è un tema d’attualità, no?
R. Landini in tv è diventato un personaggio dentro una polarizzazione tutta politica che, oltretutto non fa crescere la Fiom.
D. Cioè?
R. Cioè dal 2010, quella federazione ha perso 28mila iscritti. E quanto alla Coalizione sociale, che Landini dice di voler costruire, mi pare che di sociale ci sia ben poco, visto che diverse associazioni si sono tirate indietro. Ma Landini ha anche altre colpe.
D. Per esempio?
R. Quando era in luna di miele con Renzi, se lo ricorda?
D. Dice la fase di dialogo, quando il premier era piuttosto in urto con Susanna Camusso?
R. Sì, in quella fase, Landini elogiava gli 80 euro e rivendicava di averlo proposto lui, il trattamento di fine rapporto-tfr in busta paga.
D. Che a voi non piaceva.
R. Certo che no, perché ha indebolito la previdenza complementare: la liquidazione deve andare nei fondi pensione.
D. Perché alcuni sono riconducibili ai sindacati?
R. Ma che c’entra? I fondi complementari negoziali sono un elemento di garanzia, sono non profit. E poi, in tutto il mondo, la previdenza complementare è una realtà, spesso obbligatoria. In ogni caso un governo di giovani, come quello di Renzi, indeboliva una previdenza che per i giovani sarà importante. Per sfortuna sua e di Landini, i giovani non hanno abboccato e solo lo 0,1% ha chiesto il tfr in busta paga.
D. Dove sbaglia Landini?
R. A non capire che il problema è più grande, è costruire un sindacato moderno, non la deriva politica dello stesso. I lavoratori, poi, se gli dai indicazioni di voto, si incazzano di brutto, giustamente. Anzi è facile che gli iscritti ci chiedano di tutelarli dal governo espresso dai partiti che hanno votato.
D. Deriva politica che nasce da dove?
R. Che caratterizza spesso i dirigenti sindacali nell’ultima fase di mandato, in cerca di alternativa personale. Ma delle vicende personali dei sindacalisti, ai lavoratori non interessa. Landini così fa perdere terreno e credibilità a tutto il sindacato.
D. Ora però, con le vicende greche, tutta l’area intorno a Landini prende vigore…
R. Sì lo fa la Podemos dei Parioli, quelli che hanno fatto il charter per Atene e che, più che contro l’austerità, lottano per un seggio nel 2018, ma la demagogia e il populismo hanno sempre avuto le gambe corte.
D. Per esempio?
R. Ma le pare che Stefano Fassina, sottosegretario all’Economia di un governo dell’austerità, come quello di Enrico Letta, potesse stare là? E molti che votarono la legge Fornero, che ci facevano ad Atene?
D. Che cosa rischia il sindacato, se non cambia?
R. Il declassamento, quello che per la Chiesa è stato il rischio di secolarizzazione prima che arrivasse Francesco. In Italia, nel 2014, su 100 avviati al lavoro, 85 lo erano con forme atipiche e noi, i sindacati, ci occupavamo solo dei restanti 15. O si inverte questo aspetto o è finita. Ma c’è dell’altro.
D. Che cosa?
R. Il patto generazionale è una finzione. Non credo alla favoletta dei diritti acquisiti.
D. E invece?
R. I diritti o riguardano tutti o, sennò, si chiamano privilegi. Chi è andato in pensione col sistema retributivo, calcolato sull’ultimo stipendio, o sulla media delle retribuzioni degli ultimi anni, sta su un piano, i giovani di oggi, che avranno trattamenti pari al 46% del salario, su un altro. Non possiamo fare solo il sindacato dei pensionato e dei prepensionati.
D. Lei ha anche detto che il sindacato si deve occupare si strategia industriale.
R. Le relazioni industriali devono fare un salto di qualità, in senso partecipativo. Adesso il terreno di incontro fra capitale e lavoro è troppo in basso e deresponsabilizza entrambe le parti. In Scandinavia, in Germania, i rappresentanti sindacali stanno nei consigli di amministrazione o nei comitati di sorveglianza, partecipano alle scelte strategiche.
D. Fatto positivo?
R. C’è una ricerca del Max Planck Institute: con i sindacati nella stanza dei bottoni, in maniera competente, preparata, non ideologica, i manager sono maggiormente responsabilizzati, sono sfidati a lavorare meglio.
D. E anche la fabbrica cambia, il sindacato che fa?
R. Bisogna puntare alla manifattura del futuro, noi della Fim abbiamo un progetto su Industry 4.0, stiamo passando dai cacciaviti ai cyber impianti, in cui il ruolo della persona deve essere qualificato sempre più. Diversamente si rischia di candidare all’obsolescenza un’intera generazione. Per questo noi crediamo che la formazione sia un diritto soggettivo.
D. Le danno anche del rottamatore.
R. Non è vero. Dico però che l’appuntamento con le nuove generazioni non lo possiamo mancare e, per questo, stiamo ringiovanendo i nostri ranghi. E i giovani non li teniamo solo come supporter, gli affidiamo strutture e vertenze difficili. Sa che in Europa solo un giovane su 10 è iscritto al sindacato?
D. Non lo sapevo. E voi cosa fate dei tanti giovani che prendono la partita Iva? Pensate che vi riguardino?
R. Certo che ci riguardano. In Europa il sindacato si occupa di orientare i giovani già nelle scuole, nella transizione fra formazione e lavoro. Che si tratti di lavoro autonomo o dipendente non importa.
D. Tornando in Italia, delle questioni del lavoro si occupa sempre più spesso la magistratura, come il caso Fincantieri dimostra. Lei ha reagito duramente.
R. È vero. L’autonomia dei poteri dello Stato è un valore ma talvolta una parte della magistratura sembra non tener conto della portata di certi atti. A Monfalcone (Go) ci sono state 200 fra indagini e visite ispettive dal 2011 al 2015: qualcosa non va. Le leggi vanno applicate, ci mancherebbe, ma non si possono usare strumentalmente le norme più lacunose per bloccare il lavoro.
D. I giudici interpretano le leggi ma nella società sembra che ci sia, a volte, un odio al lavoro. A ogni angolo comitati sono disposti a bloccare tutto, all’insegna del tanto peggio tanto meglio.
R. C’è un pezzo di ambientalismo isterico che si nutre dello scontro con un industrialismo ottocentesco, per il quale pare che l’inquinamento sia un prezzo da pagare. L’interesse generale si perde di vista, per cui si curvano autostrade, si cambiano piani, in maniera assolutamente particolare. Il particolarismo è la malattia di questo Paese.
D. L’ambiente vi sta a cuore?
R. Certo, la salubrità dei luoghi di lavoro non è negoziabile. Se una fabbrica è inquinata, il primo a subirne gli effetti è che ci lavora. Prenda Taranto.
D. Prendiamo l’Ilva…
R. Lì quell’ambientalismo di cui sopra, faceva a gara con l’industrialismo di due secoli fa dei Riva, per i quali diossina e benzopirene erano uno scotto inevitabile. Entrambi si sono nutriti dello scontro e non hanno dedicato la loro energia alla soluzione.
D. Come si risolve?
R. Non certo fermando le aziende, ma risanandole. A Linz c’è la VoestAlpine, grande acciaieria, inquinava forse più dell’Ilva e a pochi passi dal nostro confine.
D. E che è successo?
R. I politici hanno risolto il problema, ristrutturandola. Oggi non inquina e lavora a pieno regime. Un modello di sostenibilità. Le fabbriche non si chiudono, si rendono migliori.
D. Siamo di nuovo alla politica. Abbiamo parlato prima di Renzi, in più occasioni. Che giudizio dà del suo governo dopo un anno e mezzo quasi di lavoro?
R. Ha iniziato nel peggiore dei modi, con quella interlocuzione esclusiva che le dicevo. Ora direi che gli fa comodo questa rappresentazione del sindacato come espressione solo dei pensionati o di posizioni alla Landini. Renzi dovrebbe un po’ svegliarsi e capire gli elementi di cambiamento e di innovazione che nel sindacato ci sono e che gli pongono alcune sfide.