La verità su ILVA: chi ha giocato e chi vuole fare sul serio – di Bentivogli
Tra chi ha giocato e chi vuole fare sul serio c’è il virtuoso piano Bondi da rivalutare. Altro che sparate di Emiliano &Co.
Oltre le bufale e nuovi piani bislacchi , qualche verità sull’ILVA
Il Foglio 2 gennaio 2016
di Marco Bentivogli
Nell’incontro di un anno fa solo noi della Fim avevamo giudicato la strada di Ilva 100% pubblica inutile e sbagliata: oggi questa posizione è confermata dal richiamo della Commissione UE.
In tutto il mondo le aziende sono state salvate con interventi pubblici temporanei e parziali e con quote di capitale che non deresponsabilizzasero il sistema industriale e bancario. Invece in questi giorni, lo scorso anno, tutti brindavano, mascherando ritardi ed omissioni con la versione cialtrona di un ritorno a Keynes.
Fino all’inizio del 2014 il Commissario Bondi, l’unico Commissario ad oggi con competenze di settore, aveva un piano industriale, giudicato costoso (alla fine spenderemo il doppio), ma credibile perché contemplava l’utilizzo delle tecnologie per innovare il ciclo integrale dell’Ilva attraverso l’utilizzo del pre-ridotto, con uno studio molto serio del Prof. Mapelli del Politecnico di Milano. Questa soluzione necessita gas a prezzi competitivi e (come Bondi spiegava) non è necessario essere acquisiti da un produttore di gas per andare incontro a questa necessità. Aveva il “difetto” di essere costruito, rispettando le prescrizioni Aia, per centrare gli obiettivi di ambientalizzazione per abbattere le emissioni cancerogene di benzoapirene del processo produttivo.
Il piano prevedeva anche interventi per tornare alla competitività in settori, come l’automotive, da cui l’Ilva era sostanzialmente uscita. Per tornare a vendere acciaio Bondi era intervenuto anche sul prezzo e questo determinò la fine della sua esperienza. La riconquista di quote di mercato provocò la reazione di tutti i siderurgici nostrani, che iniziarono a premere sul Governo affinché si chiudesse l’esperienza Bondi e vi riuscirono a metà 2014, sostituendolo con Piero Gnudi. Singolare che gli stessi concorrenti dell’Ilva salutassero positivamente la nazionalizzazione. Generalmente, in questi casi, fanno denuncia alla Commissione Ue. Il colpo di grazia è arrivato con la meteora Guerra che, dopo aver costruito percorsi tramontati prima di nascere (Newco tutta pubblica, poi con fondo di turnaround…), ci ha lasciato solo la nomina di qualche dirigente e la sconfessione di tutto il lavoro fatto. Ma non era finito il capitalismo relazionale?
Un anno fa i due potenziali acquirenti, ArcelorMittal e Arvedi, avevano manifestato intenzioni diverse ma una comune criticità: acquistare un’azienda con il cuore produttivo dell’area a caldo sotto sequestro.
Certo, il ritardo sul cronoprogramma delle prescrizioni Aia, non aiuta a conciliare il rapporto tra i poteri dello Stato, ma nella confusione e nel dilettantismo della politica il ruolo della magistratura è stato utile ad affermare una discontinuità ma da allora in 3 anni il processo non è ancora partito.
Oggi l’Ilva è indebitata, la produzione del 2015 è stata di 4,895 milioni di tonnellate di bramme grezze, un terzo della capacità di Taranto e poco più di metà di quella prescritta dall’Aia, l’ambientalizzazione è ritardata e i rifacimenti degli altoforni restano le opere più importanti. Il Governatore della Puglia, solo l’ultimo in ordine di tempo, ha abbandonato l’iniziale saggezza per accodarsi anche lui al battutificio. In gioco ci sono: un ambiente da risanare, decine di migliaia di posti di lavoro a Taranto, Genova, Novi e in tutt’Italia da salvare, la nostra sovranità industriale e soprattutto la possibilità di trasformare inquinamento e ripiegamento industriale nel più grande progetto di ambientalizzazione e rilancio aziendale. Passare dal “mah, al wow” significa anche conciliare acciaio e ambiente come una grande occasione. A pochi giorni dal bando che aprirà il percorso di vendita (da chiudere entro giugno), occorre fare presto e finalmente sul serio.