BENTIVOGLI: PORTEREMO I METALMECCANICI A VINCERE ANCORA – Specchio Economico- aprile 2016
Intervista a Marco Bentivogli: Fim-Cisl, PORTEREMO I METALMECCANICI A VINCERE ANCORA
di UGO NALDI – Lo Specchio Economico – aprile 2016
«Dobbiamo recuperare una visione positiva e progettuale del sindacato per non subire Industry 4.0, un sindacato che vive e gestisce in anticipo il cambiamento, non che lo guarda da spettatore. Pomigliano e Melfi sono stati la tappa intermedia, ossia la sperimentazione tra la terza e la quarta rivoluzione industriale. Partendo da questi significativi esempi, costruiamo una reazione positiva, di sistema; è il momento di affrontare poche sfide, ma tutti insieme, con un grande piano industriale e strategico per la produttività, in grado di favorire il back reshoring e il rientro di produzioni e, soprattutto, che serva a riposizionare l’Italia tra i leader mondiali della manifattura industriale»
La vicenda Fiat, poi Fca, è l’emblema di un successo sindacale per assicurare un futuro sostenibile alla manifattura nelle economie mature. Anche nel nostro Paese. Può essere perfino un esercizio utile osservare dallo specchietto retrovisore le vicende che hanno scandito l’evoluzione in questi ultimi dieci anni della Fiat. Sicuramente è più interessante soffermare l’attenzione sul presente e sulle prospettive future. Non per analisi astratte, ma per cogliere le dinamiche che hanno scandito un percorso molto impegnativo, che ha invertito radicalmente le linee di tendenza: dal fallimento, appunto, al successo. Ne parla Marco Bentivogli, Segretario Generale della Fim-Cisl.
Domanda. Gli operai Fiat Chrysler oggi, che ne pensa?
Risposta. La risposta la troviamo nella nostra ricerca sugli operai Fiat Chrysler in Italia, realizzata in collaborazione con il Politecnico di Torino, di Milano. Ha interessato 30 stabilimenti e 5 mila persone tra lavoratori e manager. È durata due anni e si è conclusa a novembre 2015. È stata la più grande indagine sul lavoro degli ultimi 30 anni, il più significativo «focus» su come è cambiato il lavoro nell’industria automobilistica del nostro Paese. È la più grande indagine sulle condizioni di lavoro degli ultimi 30 anni.
D. Cosa emerge?
R. Dobbiamo fare un passo indietro. Il nostro obiettivo era mantenere gli stabilimenti aperti per salvaguardare l’occupazione, molti oggi fanno finta di non ricordare, ma nel 2004 quando Sergio Marchionne entrò in scena l’azienda era oltre l’orlo del baratro. Questo implicava abbandonare le vecchie liturgie e misurarsi con la nuova questione industriale. Abbiamo raccolto questa sfida, in perfetta solitudine con l’ostilità dei media che, insieme a politici, banchieri e sindacalisti da intrattenimento, hanno additato questa vicenda come un attacco ai diritti dei lavoratori. La Fim ha pagato un prezzo alto con attacchi alle proprie sedi e dirigenti sotto scorta. Quella che è stata raccontata come una stucchevole «storytelling» sullo schiavismo si scopre essere una bufala che purtroppo ha armato frange di squadrismo sindacale. Oggi grazie ai nostri accordi la Fiat è tornata competitiva e a creare occupazione. Non siamo scappati nel momento più duro e oggi vinciamo.
D. Il punto decisivo di transizione quale è stato?
R. In sintesi: nuova fabbrica e nuove regole, con un nuovo clima di fiducia sul terreno di nuove relazioni industriali, connessi ai necessari cambiamenti per lo sviluppo del Wcm ( World Class Manifacturing), basata tra l’altro su una metrica del lavoro chiamata Ergo-Uas che applica sulle linee di montaggio un principio elementare: carichi minori ma più attenzione.
D. Tradotto?
R. È un insieme sinergico di stretta saldatura tra innovazione tecnologica, organizzazione e gestione perché le aziende possano raggiungere l’eccellenza delle performance nell’orizzonte della competizione globale. Con un preciso paradigma di riferimento: un nuovo modo di intendere il lavoro, manageriale ed operativo, quale fonte del vantaggio competitivo, in quanto creatore di nuova conoscenza attraverso le pratiche del miglioramento e della innovazione applicate agli oggetti e ai modi del lavoro. Con la conseguenza di una revisione profonda della catena di comando, meno conflittuale e più partecipativa, basata sulla collaborazione tra i diversi livelli gerarchici e sull’attiva partecipazione degli operai alle decisioni sul lavoro.
D. Sotto il profilo teorico è così, mentre sul terreno concreto dell’organizzazione del lavoro in fabbrica?
R. Con la nostra «indagine» siamo tornati a fare quella che una volta si chiamava «inchiesta operaia», cioè siamo tornati a studiare il lavoro e i suoi protagonisti: i lavoratori e le nuove condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti. Due le indicazioni che emergono: un modello produttivo decisamente nuovo; la rilevanza della partecipazione dei lavoratori al miglioramento dell’organizzazione ed al lavoro in team. Ed inoltre: una diminuzione della fatica fisica, in seguito all’introduzione di soluzioni ergonomiche nella progettazione del posto di lavoro, ed un miglioramento delle condizioni di lavoro, di sicurezza, di ordine e di pulizia. Siamo finalmente all’interno di un processo in continuo divenire e «l’ingaggio cognitivo» richiesto è maggiore. In buona sostanza: il lavoratore assume un ruolo centrale nel processo produttivo perché può fornire idee per il miglioramento dello stesso anche attraverso la diretta partecipazione alle decisioni del team sulla rotazione delle funzioni ed il ridisegno del prodotto e del processo.
D. Tutto bene, dunque.
R. Affatto. Ci sono ovviamente luci ed ombre, gli operai sostengono di fare meno fatica ma di avvertire un maggiore stress. Del resto siamo all’interno di un processo in continuo divenire e «l’ingaggio cognitivo» richiesto è maggiore. Vi è una certezza: anche l’immagine della fabbrica è cambiata. Da luogo lugubre ed «infernale» oggi combatte con più efficacia per arrivare ad essere una realtà più a misura d’uomo. Nel caso di Pomigliano poi si tratta di uno stabilimento che si colloca ai vertici mondiali per innovazione tecnologica e organizzazione del lavoro. E lo è nel grande scenario della «quarta rivoluzione industriale» Industry4.0, che attraversa, in profondità, il mercato globale. Ed è in questo orizzonte che si colloca la nostra riflessione. Anche perché Pomigliano è un punto intermedio tra la terza e la quarta rivoluzione.
D. In effetti di questa quarta rivoluzione industriale si parla poco, salvo sporadici accenni.
R. Siamo stati il primo sindacato a parlarne in un seminario organizzato all’Expo, dal titolo «#SindacatoFuturo in Industry 4.0», e avviato un grande progetto di ricerca. La quarta rivoluzione industriale solo in Italia è banalizzata come roba per futurologi, ovunque è già una realtà. Occorre affrontarla con la giusta preparazione e con strumenti adeguati, perché i cambiamenti vanno affrontati da protagonisti, non da spettatori. Big data, la robotica, internet delle cose, la produzione additiva con le stampanti 3D sono solo alcune delle nuove tecnologie che stanno trasformando il lavoro e che stanno ridisegnando a grande velocità e in profondità gli assetti produttivi mondiali, con effetti significativi nelle dinamiche del sociale e del lavoro.
D. Se ne deduce una valutazione piuttosto pessimistica.
R. Affatto: le visioni negative non hanno mai favorito, di per sé, prospettive positive. In Italia invece che prepararsi al futuro, continuano a spopolare libri di preoccupazioni, per dirla come Keynes sulla disoccupazione tecnologica. Anche i primi aratri in metallo dimezzarono l’occupazione su quella lavorazione, eppure… Con Industry 4.0 non abbiamo alternativa, dobbiamo muoverci e giocare d’anticipo: se lasceremo che il tema si risolva in un dibattito su tecnologie, impatti economici e industriali, il lavoro e il lavoro organizzato saranno questioni secondarie e in particolare il secondo sarà confinato all’irrilevanza. Il grosso rischio è che senza una progettazione condivisa, senza un’architettura industriale attenta non solo a tecnologie e finanza, le nuove smart factory rischiano di essere «workers less e union’s free». Il sindacato sarà adeguato, se saprà reintrodurre la centralità del contributo delle persone. L’esperienza del Wcm è stata proprio l’esempio di come innovazione, formazione e organizzazione del lavoro possano da un lato difendere l’occupazione e dall’altro smontare i due falsi miti per cui per difendere il manifatturiero nelle economie mature bisogna ridurre salari e deteriorare le condizioni di lavoro. Il guadagno di produttività di queste fabbriche sarà elevato e questo consentirà nei settori a bassa innovazione di potersi giocare partite di «back-reshoring» e rientro di produzioni.
D. Quali, dunque, le direttrici?
R. La nuova manifattura 4.0 richiede un fortissimo investimento nel capitale umano e nella riqualificazione professionale, accanto ad investimenti sul versante dell’innovazione e delle infrastrutture. Non basta organizzare convegni: servono importanti investimenti sulle nuove tecnologie a partire dalla banda larga, ma anche un profondo cambiamento culturale e nuovi modelli organizzativi in cui sindacato e lavoratori possano svolgere un ruolo importante. È per questo che da tempo stiamo insistendo affinché le imprese riavviino i programmi di investimento troppo a lungo rimandati e che si realizzi una vera partecipazione dei lavoratori alle strategie aziendali. Occorre inoltre colmare il gap di competenze professionali attraverso l’introduzione della formazione come diritto soggettivo e l’alternanza scuola/lavoro. Dobbiamo recuperare una visione positiva e progettuale. Nei prossimi quindici anni l’Europa investirà sulla manifattura intelligente 90 miliardi di euro all’anno e in questa sfida la Germania è già partita da tempo. Ciò che serve al nostro Paese oggi è un grande piano industriale e strategico, fondamentale per recuperare produttività, un piano che favorisca il «back reshoring» e soprattutto riposizioni l’Italia tra i leader mondiali della manifattura industriale.
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