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NEL PAESE ORA E’ TEMPO DI RICOSTRUZIONE CIVILE – Corriere della Sera 16, marzo 2018

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NEL PAESE ORA E’ TEMPO DI RICOSTRUZIONE CIVILE

Corriere della Sera

di Marco Bentivogli,  16 marzo 2018

Caro direttore, le sconfitte fanno bene se sono occasione di rigenerazione.

Purtroppo anche il dibattito successivo alle elezioni non tiene conto del sommovimento che da anni è avvenuto nel Paese. La crisi attraversata dalla sinistra non è riconducibile solo al gruppo dirigente e più in particolare alla leadership (quello semmai è un tema che, come giustamente ricorda Luciano Fontana, nel suo libro, riguarda più ambienti). Si parla solo di nomi, invece si tratta di una crisi strutturale. La sinistra, in tutte le sue versioni ispirate a un socialismo temperato o alla socialdemocrazia, si è dimostrata sorda al disagio sociale che invece è stato raccolto dai populisti, abili occupare gli spazi lasciati sguarniti. Ma si è dimostrata anche afona rispetto alle prospettive di un orizzonte realmente progressista e riformista.

Né la crisi della sinistra riguarda l’Italia. E’ in difficoltà il Ps francese, drasticamente ridimensionato alle presidenziali, e anche la Spd tedesca, che ha avuto però la forza, coinvolgendo i suoi quasi 400.0000 iscritti, di dare via libera al governo di Grosse Koalition con Angela Merkel. In Italia, l’inseguimento dello spazio politico oltre il Pd ha travagliato la sinistra per anni, per poi accorgersi che non supera le dimensioni del “collettivo Parioli”, rilevante in qualche redazione ma inesistente nelle fabbriche e nel Paese. La sinistra che parla ossessivamente di lotta alle disuguaglianze senza capirle, ferma ai Bignami di Piketty, non solo ha dimentica don Milani ma non ha neppure letto l’ultimo libro di Dario Di Vico.

Come sempre, la via più comoda consiste nell’allontanare da se stessi le responsabilità. E infatti anche in questo caso ci si rifugia in vecchi slogan: è “colpa della società” o magari del fantomatico “modello di sviluppo”. La fuga dalle responsabilità, l’incapacità dei gruppi dirigenti di assegnare alla propria azione un senso, la loro miopia che ha associato qualsiasi visione al quotidiano, tutto ciò ha contribuito ad alimentare la crisi di senso e di civismo di cui soffre il nostro Paese. Fa rabbia perché questo è un Paese incapace di vedere i semi generativi di cui siamo ricchissimi: Imprese, persone, associazioni, mondi vitali che fanno invidia a tutto il mondo. Siamo tanto affezionati a un passato che non passa perché siamo nostalgici delle sue contraddizione. Negare il bisogno di sicurezza degli italiani serve ad aumentare l’insicurezza, o meglio la sua percezione, funzionale elettoralmente.

I drammi delle nuove povertà, della non autosufficienza, della povertà minorile e generazionale sono sepolti dalla paura del migrante, dell’innovazione. E’ una follia che funziona tanto più la si nega. Questa negazione mette a nudo i limiti di una concezione esclusivamente mediatica della politica, che si rivela incapace di incidere per ricostruire legami sociali e umani, di separare i problemi veri dalle false paure. Le nuove disuguaglianze non riguardano solo il reddito, coinvolgono l’accesso alla partecipazione, alla cultura, all’informazione di qualità, ai servizi.

Di questo dovrebbe interessarsi la politica se fosse responsabile. Sono proprio le nuove disuguaglianze a bloccare l’ascensore sociale italiano. Abbiamo l’onesta intellettuale di chiederci perché il livello di rancore e di sicurezza cresce proporzionalmente al livello di benessere? Guardiamo le schede dei consumi di oggi e degli anni 60, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro (ancora deludente ma incomparabile), la crescita del benessere diffuso. E poi chiediamoci ancora: come mai nei Paesi più ricchi si fanno meno figli? Dovrebbe essere il contrario. Perché, anche da noi, i poveri veri non sono tra i rancorosi urlanti? Come dice il bravissimo Franco Amicucci, c’è un tema relativo alla “soglia di slancio”, al benessere acquisito come “soglia garantita” da cui parte un inseguimento al rialzo, una rincorsa inevitabilmente attraente e altrettanto frustante. Se l’inseguimento non è coronato da successo, ci sentiamo autorizzati a recitare la parte di ultimi della terra. Credo tuttavia che sulle macerie di questa irresponsabilità sia possibile una volta. E’ il tempo della ricostruzione politica e civile del Paese: oggi più che mai. Ripensare il rapporto tra Stato e mercato, costruire un nuovo pensiero del lavoro, riappropriarsi dell’idea di futuro e dare uno spazio di protagonismo propositivo alle persone ai corpi sociale: questo è il cantiere da aprire subito. Mettere insieme chi non si è arreso alla cultura degli alibi è la sfida dei prossimi giorni.

Il che significa unire chi non ha mai accampato scuse per la propria responsabilità personale, né l’ha annegata nell’irresponsabilità collettiva. Chi crede nel progresso ha bisogno di “maestri di strada”, di persone che ascoltino, che capiscano l’emergenza educativa, che diano almeno l’dea di condividere il destino di chi rappresentino, che amino le persone più delle idee, di qualsiasi idea. E di trasmettere a tutti a partire dagli ultimi, il senso di una vera speranza di una nuova e condizione umana.

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