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Marco Bentivogli, l’antipopulista – Il Foglio, 6 luglio 2018

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Marco Bentivogli, l’antipopulista

Tutti lo blandiscono e lo invitano, lo annusano e lo vorrebbero usare. Chi è il sindacalista cattolico che vorrebbe rivoluzionare la sinistra italiana

di Salvatore Merlo, 6 Luglio 2018

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Quello che oggi si chiama sinistra è una forma di smaltimento dei fondi di bottiglia dell’estremismo ideologico”, dice. “Una cosa che ha sempre affascinato i ricchi e mai i poveri”, aggiunge. “E non è un caso se oggi abbiamo una parte del sindacato che parla solo di pensioni”, conclude. Siamo al quinto piano del palazzo unitario che a Roma, al quartiere Trieste, ospita i sindacati dei metalmeccanici. Ma come si capisce bene, qui al quinto piano, in queste stanze un po’ spoglie, tra gli infissi in alluminio e il pesante ascensore anni Settanta, non c’è l’idea che il marxismo sia la scienza dell’amministrazione del capitale né si coltiva l’antica logica del nemico di classe. “Laburisti, socialisti… Sono categorie del Novecento, e oggi diventano scorciatoie, alibi utili soltanto a eludere la complessità del mondo contemporaneo”, arieggia questo sorprendente sindacalista metallurgico, lui che di un film di Elio Petri ha soltanto l’aria, ma non l’indole. “La sinistra è soggetta ad ammalarsi di se stessa, un male che consiste nell’essere contemporaneamente il febbricitante e la febbre, la cosa che soffre e quella che fa soffrire”. A parlare è un uomo sulla cinquantina – “ho quarantotto anni” – vestito in modo semplice, orgoglioso delle sue camicie a maniche corte che ritiene torneranno di moda, un orologio Casio, la fede al dito, l’abbronzatura di chi fa i picchetti sotto il sole di luglio. Marco Bentivogli è il segretario della Fim, il sindacato dei Metalmeccanici Cisl, un signore dalle spalle ben aperte e dalla fisionomia vivida che fa impazzire i suoi colleghi della Fiom e della Cgil, perché spiazza e contraddice, confonde i riti, i linguaggi, i cliché. Ed è infatti il nemico/amico, l’alter ego di Maurizio Landini – “la notizia è che durante il rinnovo del contratto siamo tornati amici. Tra vecchi dirigenti metalmeccanici bisogna conservare umanità anche negli scontri più duri” – perché Bentivogli ha sempre insistito per accordarsi con la Fiat a Pomigliano, a Melfi e a Mirafiori, perché lui sostiene che la tecnologia non ruba il lavoro ma aiuta gli operai, perché i tic della sinistra classica lo irritano, quasi gli gonfiano le vene delle tempie.

“Votai ‘Sì’ al referendum costituzionale. E credo che il populismo sindacale abbia favorito il populismo politico”, ovvero la concessione ai desideri più immediati e pigri di un popolo in difficoltà cui non si indica mai un orizzonte e una prospettiva di crescita faticosi eppure remunerativi, ma piuttosto la strada più comoda, lasca, in definitiva miserabile. “Noi abbiamo capito che il sindacato si rafforza con la competenza e lo spirito di frontiera, per evitare che le cose vengano prese in mano dagli impresari della paura. Ricordo quando durante la campagna elettorale per le presidenziali francesi Macron e Le Pen andarono a parlare alla Whirpool, ad Amiens. Le Pen disse che la crisi era colpa della globalizzazione, e fu applaudita anche dagli iscritti ai sindacati. Macron invece si prese i fischi ma non rinunciò a dire la verità. Ecco, io penso che i sovranismi siano nati anche per colpa di alcuni sindacati. Penso che il peggior sindacalista e il peggior politico siano quelli che dicono alla gente quello che la gente vuole sentirsi dire. Questo non significa non ascoltare. Ma chi oggi se ne va in giro a inseguire le fesserie e le follie del Novecento fa male al paese, che avrebbe invece bisogno di modernità. Di smuoversi. Meno burocrazia, più innovazione, più mobilità sociale”. Anche per questo Bentivogli è celebrato, e in parte temuto come un possibile concorrente, dalla sinistra riformista e persino dalla destra liberale, o da quel che ne resta. Mondi in difficoltà. Compressi dalla marea montante del populismo. Secondo alcuni persino mondi in disarmo. Razza condannata, quasi i pellerossa o i pigmei. E allora Bentivogli è amico di Carlo Calenda, anche se lo critica e lo considera troppo statalista. E’ stato cercato da Matteo Renzi che lo invitò alla Leopolda, anche se critica pure lui, “perché a un certo punto si è chiuso in arrocco”. E ha persino incuriosito Silvio Berlusconi, a quanto si dice ad Arcore, malgrado il Cavaliere non sia precisamente il genere d’uomo che gli piace. Insomma tutti lo vorrebbero questo sindacalista cattolico che ha aperto tra gli applausi la settimana sociale a Cagliari, sposato in chiesa, solidarista con i migranti, e a modo suo rivoluzionario, con lo sguardo un po’ fisso nel viso espressivo. Tutti lo blandiscono e lo invitano, lo annusano e lo vorrebbero usare. C’è dunque chi cuce addosso a Bentivogli la stoffa del leader politico. Il capo naturale della sinistra italiana, addirittura. Ma quando glielo si chiede – entri in politica? – allora lui si ritrae in guscio: “Penso di poter dare una mano al paese facendo bene il mestiere di segretario dei metalmeccanici”, risponde, con un viso di cemento. “La grande forza di questo governo tra Lega e Cinque stelle è l’assenza di opposizione. E questo non può lasciare indifferente il sindacato. Che può avere un ruolo. Deve avere un ruolo. Nella società chiusa, il sindacato non esiste”.

 

Si descrive come un genuino elemento della base, abituato al contatto politico vivo e immediato, umano, della base. Ma non è privo di ambizioni personali (tutt’altro), con un compiacimento professionale per le cose che fa e racconta di saper fare molto bene, talvolta un po’ saturo di se stesso. “Mi occupo di industria 4.0, di blockchain e di lavoro dal 2014. Ho fatto ricerche, inchieste, e ho scritto un libro di discreto successo con Castelvecchi, ormai alla seconda ristampa”. S’intitola “Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato”. Tutte cose di cui parla con una certa energia vitale. Però è come se avesse sempre ristretto le ambizioni al suo ambiente, soddisfatte lì. “Domani vado a Casal di Principe con ‘Nco’”, l’associazione (Nuova cooperazione organizzata) che fa il verso alla Nuova camorra organizzata, e trasforma in ristoranti e attività imprenditoriali e sociali i terreni e le proprietà confiscate alla mafia in Campania. Una giornata tipo? “Sto sempre in giro, mi alzo alle 5 e 30, alle 5 e 40 inizio a mandare scritti e solleciti all’organizzazione in tutta Italia. Poi o raggiungo un’altra città, incontro lavoratori e imprese, o vado al ministero per le vertenze… o ad Amelia, in provincia di Terni, alla nostra scuola quadri Fim. Altrimenti vengo qui alla sede del sindacato. Dove in realtà però sto pochissimo”. Non la politica pura, dunque, la politica lo sfiora tangenzialmente. La sua è la vita minuta, aggressiva, concreta del sindacalismo. Poi c’è la vita in famiglia, la moglie Silvia e la figlioletta Emma di otto anni, che vivono ad Ancona, in una casa controllata a vista dalla polizia, perché ha ricevuto ripetute minacce di morte. Ed è sotto tutela.

I suoi avversari, nel sindacato, ma anche fuori, per provocarlo gli dicono: “Sei di destra”. Quando glielo si ripete lui si mette a ridere, forse per non arrabbiarsi. “Vengo dalla sinistra radicale. Da ragazzo occupai il centro sociale Obelix a Serpentara e prima la Pantera all’Università, qui a Roma. Di certo sono contro il collettivo Prati-Parioli. Cioè quelli che predicano per gli ultimi senza condividerne mai il destino”, dice. Si capisce che i fighetti di sinistra gli danno un fastidio persino fisico. E qui forse viene fuori il suo animo metalmeccanico. Ce l’ha con la tribù dei notabili da centro storico che rappresenta i diritti del proletariato, quelli che hanno la concupiscenza della proprietà, però usano il linguaggio collettivistico. Anche se, si obietta: non è detto che si debba abitare nei tuguri per aiutare il popolo a liberarsene. “Il problema è un altro. Un vero riformista, sta nella realtà”, dice lui, con l’aria di chi, quando la mattina recita il padre nostro, intende per pane quotidiano anche il buon senso e un certo rigore nei costumi. “Quello che mi ha sempre infastidito nei compagni è il velleitarismo. Indicare i nemici anziché accompagnare le persone fuori dal guado delle difficoltà. Non so delle due cose quale sia quella più di sinistra. Tu che dici? La sinistra oggi sbaglia persino nella lettura delle disuguaglianze. Non fa i conti con l’evasione dell’Iva, con il lavoro sommerso, due cose che da noi in Italia sono un record. Ci vorrebbe meno Piketty, il teorico delle diseguaglianze lamentose, e più Don Milani, che offriva strumenti di conoscenza”. A proposito: chi sono i tuoi riferimenti? I modelli culturali? “I miei genitori”, risponde subito, il papà sindacalista Cisl. E poi “Pierre Carniti e Don Luigi Di Liegro”.

– Chi è il tuo amico più a sinistra? – “Ho un ottimo rapporto con Giorgio Cremaschi. Mi ricorda Enzo Jannacci. E’ l’unico di sinistra radical che non è diventato ricco. E questo me lo rende simpatico. Io dico sempre che bisognerebbe fare una legge per cui i benaltristi vivano delle loro idee”.

– Ma Jannacci non ha mai fatto il sindacalista. “E nemmeno Cremaschi!”, prorompe (scherzando).

Un tempo si diceva che l’Italia è una graziosa ragazza dalla vita stretta. E che il Pci, la sinistra, avevano nelle mani i fianchi di questa bella ragazza, perché controllavano il centro, cioè la Toscana, l’Umbria e l’Emilia. Bastava stringere, e la donna era loro. Non è più così. La sinistra alle ultime elezioni amministrative ha perso Siena e Pisa, e persino Terni, le banconote e le acciaierie. “E come faceva a vincere la sinistra? Arrivano gli avvisi di garanzia e nessuno si dimette. C’è tutta l’arroganza del partito che governa. La falsa democrazia diretta del Movimento cinque stelle è paradossalmente più credibile della rappresentanza degli inarrivabili. Una classe eterna, chiusa. Questa tracotanza nella sinistra ha rafforzato l’orrore della democrazia diretta”. Tuttavia Renzi sembrava dover scardinare l’idea della classe eterna. “Renzi è una questione complessa. Credo che qualsiasi novità nel nostro paese si possa misurare su quello che io chiamo ciclo ‘Omn’: Opposizione, Moda, Nausea. Renzi era partito benissimo, aveva sgretolato l’idea che invece del merito ci sia la lista d’attesa. In Italia i sessantottini buttarono giù i muri e le pareti, ma poi una volta raggiunti i vertici della piramide hanno costruito un’impermeabilità e una incontendibilità generazionale”. Si sono allogati nelle stanze del potere, ci hanno fatto il nido. “E hanno fatto entrare dalla porta soltanto i replicanti, quelli che gli assomigliavano. Ecco, a un certo punto Renzi ha rotto la lista d’attesa, ha squassato la fila indiana. Il suo errore è stato quello di diventare però poi sempre più inarrivabile lui stesso. Inoltre non ha saputo costruire una rete nella società, nell’associazionismo, nei sindacati, nei corpi intermedi. Alla fine si è chiuso. Così ha accelerato la fase N, cioè la nausea nei suoi confronti. E poi questo è un paese spaccone che non sopporta chi si atteggia a spaccone”.

Andasti alla Leopolda. “Andai alla Leopolda perché noi della Fim votammo un forte sostegno alla riforma costituzionale. Ma con troppa facilità Renzi ha considerato rivali delle persone che invece volevano soltanto dare una mano. Non distinguendo tra agli ambiziosi e i generosi. Certo è che se fosse passato il referendum, questa oggi sarebbe un’Italia migliore. A noi non serve un Macron. Io non credo che esista uno scontro tra la massa e le élite. E’ una stupidaggine. La vera forza di Macron è stata quella di sostituire la vecchia élite con una élite ancora migliore. Anche l’Italia avrebbe bisogno di una élite che sia ‘generativa’ e anche generosa. La nostra sclerosi è in parte dovuta alla difficoltà di modificare la Costituzione. Sembra che nel nostro paese tutto concorra a rafforzare le burocrazie che gestiscono la lentezza”. Perché vinse il No, al referendum? “Vinse il no perché l’Italia è forte nel coalizzarsi ‘contro’ le cose. D’altra parte essere contro è più facile. Certo, credo che in misura minore abbia influito anche la personalizzazione della battaglia referendaria portata avanti da Renzi, ma al contempo stimo sempre chi ci mette la faccia e non scappa”. Quello che infastidisce, insomma, è la superbia, dice Bentivogli. “Adesso se uno cerca la domanda politica di cambiamento fa fatica. Ma non è vero che non esista. Ci vuole un’offerta completamente nuova. E questo riguarda non solo la politica. Ma anche tutti i soggetti di rappresentanza. E’ l’offerta che fa emergere la domanda”.

 

E’ quello che dice anche Calenda. “Considero Calenda un amico, ma questo non significa avere le stesse idee. Lui pensa che dal 1989 la sinistra abbia presidiato il futuro, mentre la realtà è che abbiamo lasciato il futuro ai populisti. Io penso che Gianroberto Casaleggio abbia parlato di futuro, certo un futuro macchiettistico, ma pur sempre futuro, molto più del Pd. Inoltre ritengo che lo stato proprietario sia un problema, non una risorsa, a differenza di Calenda. Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia stanno sostituendo il ruolo delle banche. E questo, vedrete, avrà effetti perniciosi nel tempo. Inoltre, se fossi in Calenda, starei lontano dal dibattito interno al Pd”. E’ una zuffa continua. “Il partito laburista inglese e il Partito democratico americano hanno avuto per decenni al loro interno Jeremy Corbyn e Bernie Sanders. Ma ricordo benissimo come Sanders, una volta sconfitto alle primarie, poi faceva i comizi a favore di Hillary Clinton”. Dibattito e democrazia sono risorse, però. “Le minoranze vanno tutelate, ma poi deve prevalere un principio di maggioranza. Le minoranze vanno custodite, chi pensa solo a cacciarle impoverisce le organizzazioni, ma ci sono regole che vanno rispettate da tutti. Questo è un aspetto decisivo”. Diciamo che è lo svantaggio competitivo del Pd nei confronti di Lega e M5s. Lo spirito di massa non ama le discussioni. Ed è lo spirito di minoranza quello che presiede alla critica, all’arte e alla buona politica. La democrazia liberale nasconde una profonda preferenza per i pensieri piuttosto che per i provvedimenti. “Certo. Ma in questi ultimi anni, Di Maio e Salvini hanno fatto una campagna elettorale permanente veicolando messaggi molto chiari, molto semplici, di grande effetto. Contemporaneamente, per quanto riguarda la sinistra, in questi anni la visibilità mediatica sui social e in tv è stata intorno al travaglio interno al Pd. Una delle cose meno interessanti che esistono sulla faccia della terra. Questa non è più difesa del principio di minoranza. La televisione invitava Di Maio per parlare di casta, invitava Salvini per parlare di immigrazione, e invitava Michele Emiliano a parlare di Pd. E’ evidente come tutto ciò abbia reso afono il centrosinistra sulle cose che contano. Allora io penso questo: se ti proponi come il partito della complessità, devi saperla maneggiare sul serio questa benedetta complessità”.

“Macron ha sostituito la vecchia élite con una ancora migliore. Anche l’Italia avrebbe bisogno di una élite che sia ‘generativa’ e generosa”

Parla pacatamente, non cerca di essere brillante, ma si sforza di essere denso, talvolta con qualcosa di ruvido nello sguardo. Che studi hai fatto? “Informatica alle superiori. Poi Scienze politiche, ma non mi sono laureato. Avevo finito tutti gli esami, iniziato la tesi, alla Sapienza, negli anni Novanta, ma poi entrai nel sindacato e non pensai più ad altro”. Quando va in televisione, non spesso, Bentivogli è come trasportato da un’energia scontrosa. Una volta ha litigato con Salvini, in diretta. “E lui poi mi ha querelato per diffamazione. La querela fu archiviata, e lui impugnò l’archiviazione. Ma alla fine, l’attuale vice-premier ha perso. Perché è venuto fuori che avevo ragione io, cioè che lui aveva il 91 per cento di assenze al Parlamento europeo. Nella vita ho affrontato situazioni molto tese, nei cortei e in fabbrica. Figurarsi se mi faccio intimidire da un bulletto come Salvini”. Che pensi di lui? “E’ molto efficace negli slogan ma se ne frega del merito delle cose. La sua retorica funziona per stati d’animo. E’ spregiudicato. Sarebbe capace di dire qualsiasi cosa”. Hai mai fatto a botte? “Ho preso botte dalla celere con Alcoa, all’Ast… ho affrontato i cortei più duri. I dirigenti sindacali devono stare sempre accanto ai lavoratori e proteggerli dalle situazioni più pericolose. Una volta a Carbonia per la vertenza Alcoa lasciarono fuori scientificamente i metalmeccanici dall’incontro. La nostra reazione fu durissima, i ministri Barca, Passera e De Vincenti scapparono in elicottero”. Adesso il ministro del Lavoro è Luigi Di Maio. Come ti sembra? “L’ho incontrato per l’Ilva. E’ stato molto cordiale, ma non ha risposto a nessuna domanda. Il problema è che tranne noi e Usb, il sindacato non ha battuto un colpo su Ilva”. Che differenza c’è tra la Lega e il M5s? “La Lega è un partito vero, ben organizzato, fa molto di quello che un tempo faceva la sinistra. Il Movimento è invece un calderone, figlio legittimo della partitocrazia: è la bile contro gli eccessi, contro l’arroganza che i partiti hanno dimostrato in questi anni. E ha fatto leva sull’analfabetismo funzionale diffuso in Italia quanto in Turchia”. Longanesi diceva che uno stupido è uno stupido, due stupidi sono due stupidi, ma diecimila stupidi sono una forza storica. “Sono comunque una forza in campo, anche nelle fabbriche, bisogna farci i conti. Non vedo l’ora di potermi confrontare su industria e lavoro con i Cinque stelle, parlare di merito fa bene a tutti, ma fino a oggi hanno rifiutato qualsiasi confronto. Il sindacato deve preservare la sua autonomia e confrontarsi con tutti i partiti, ma bisogna volerlo in due. A me preoccupa il numero di giovani che vota M5s. I giovani tedeschi non votano Afd. Immaginare che la nostra possa diventare una Repubblica fondata sui sussidi non è solo economicamente insostenibile, ma anche eticamente mostruoso. Mio padre diceva che a partire dai quattordici anni si doveva lavorare. E io, da quell’età, per tutte le estati, ho fatto il pony express, ho lavorato anche da McDonald’s a piazza Esedra dove adesso c’è Eataly. Nell’ultima fase facevo il Big Mac… Ma non riuscii mai ad arrivare a fare le insalate, che erano il punto più alto della carriera”.