Bentivogli: “Riformismo, antidoto al catastrofismo”
Mario Lavia@mariolavia · 1 maggio 2019
Bentivogli, che Primo maggio è questo? Nel passato abbiamo visto questa come una giornata di festa, ma veramente di festa, quando si guardavano i passi avanti nei diritti dei lavoratori, nelle loro condizioni di vita e di lavoro; oppure si sono vissuti il Primo maggio tanti momenti di battaglia, persino di rabbia; o in difesa della democrazia. E oggi invece predomina l’ansia per il futuro e addirittura la rassegnazione per un lavoro che non che c’è. Ma è giusta questa rappresentazione catastrofica del futuro? O ci sono nuove possibilità?
Certo che un Paese che ha il doppio della disoccupazione giovanile avrebbe poco da
festeggiare. Ma la festa del lavoro è un momento di bilanci su quello che si ha e su ciò che occorre fare. Deve tenere insieme anche chi un lavoro degno lo vede ancora come un miraggio con chi trova soddisfazione nella propria occupazione. Ci sono luoghi nel mondo in cui è vietata questa festa. Teniamocela cara, il lavoro è una delle forme più nobili attraverso cui l’uomo acquisisce dignità e cittadinanza. La narrazione per cui tutto va male e andrà peggio non ha fondamenti ma ha precisi scopi. Impedire ogni progresso. Girano medie complessive sul mondo del lavoro italiano per cui
non abbiamo saputo difendere il potere d’acquisto dei salari. “Medioni” che mischiano
pubblico, privato, terziario e industria. Chi ha due livelli di contrattazione e chi ha avuto il blocco per 8 anni. I dati sull’occupazione che celano che siamo il paese campione di lavoro nero e evasione contributiva. Con i condoni fiscali, i sussidi, e tante promesse è chiaro il target di riferimento di queste politiche: l’Italia dei furbi. Sono politiche utili a far sentire dei “fessi” l’Italia che fatica e non chiede sconti. Ritorniamo a dare merito e onore all’Italia del lavoro. Quella che a prescindere da qualsiasi Governo si rimbocca le maniche tutte le mattine. E’ un momento in cui bisogna ripensare tutto nel lavoro e occorre concentrare tutte le nostre energie a progettare un futuro che può essere formidabile per la condizione umana.
Lei ha scritto un libro importante (Contrordine compagni, manuale di resistenza alla tecnofobia) dove illustra tante cose positive che potrebbero essere fatte. Scrive infatti che “il futuro del lavoro è un foglio bianco da scrivere”. E porta degli esempi significativi: lo Smart working, per esempio. Poi uno pensa all’Italia e specie a certe sue zone e gli cascano le braccia. Siamo davvero molto indietro?
Siamo un paese, campione di inventori e somaro nell’innovazione. La retorica del ‘si è
sempre fatto cosi’ o quella nuovista in cui si scambiano le vere trasformazioni con le mode è pericolosa perché fa perdere grandi opportunità. A mio avviso il nostro paese vive ogni novità con il ciclo OMN, di cui parlo nel libro, ad ogni novità la prima risposta è l’Opposizione, che poi diventa Moda per poi passare alla Nausea. E quando, come ora siamo in mezzo ad una grande rivoluzione, il rischio è di trattarla come la moda delle espadrillas, che è durata poco. La tecnologica può essere un grande alleato per l’umanizzazione del lavoro ma bisogna avere competenze e capacità progettuali. E’ evidente che viene ridiscusso il lavoro soprattutto nella sua collocazione spazio/tempo. Orari e luoghi fissi sono sempre più inutili per moltissimi lavori.
E lo Smart working?
Lo Smart working contrattualizzato sta dando risultati: migliorare la conciliazione del lavoro con la vita, aumento della produttività, riduzione degli orari di lavoro, miglioramento della sostenibilità ambientale. Ci sono troppe aziende (e molti sindacalisti) che fanno fatica a ripensare il loro ruolo e bloccano queste evoluzioni virtuose. Se le gerarchie aziendali e gli spazi e tempi di lavoro servono al controllo e non alla conciliazione della produttività con il benessere delle persone, si risolverà un problema di autostima del manager ma si farà male alla produttività dell’impresa.
So che lei non disdegna l’autocritica. Anche il sindacato è rimasto fermo ad un panorama sociale e del modo di produzione che non esistono più, il che è probabilmente la causa principale del suo distacco specie dalle nuove generazioni. Che fare? Come connettere la battaglia – poniamo – dei giovani riders a quella più generale?
I riders non sono nel lavoro della mia categoria ma sono un buon esempio per dimostrare quanto sia inadeguata l’autostrada bicolore per cui in Italia esistono solo due tipi di lavoro: autonomo e dipendente. Il nuovo lavoro non è né l’uno e ne l’altro. E bisogna smetterla di voler inserire il nuovo nelle scatole vecchie e inadeguate faremo al contempo un torto a lavoratori e a imprese. Per questo anche ragionamenti su salario minimo legale, tutele che non tengano conto di questa novità rischiano di essere troppo astratti. Bisogna lanciare a livello europeo una battaglia per degli standard minimi del lavoro degno, sotto i quali non si può andare mai e quando accade si deve revocare la patente di imprenditori. Credo nel futuro ma i morti e gli infortuni di questi mesi mostrano un paese in cui vi sono ancora troppi delinquenti mascherati da imprenditori. Non bisogna dargli tregua.
Il provvedimento dell’ ex ministro Calenda Industria 4.0 è fra le cose migliori dei governi di centrosinistra. Invece Conte e Di Maio un po’ lo hanno smontato un po’ lo hanno ripreso: ma non pare che questo governo abbia un’idea chiara sulla politica industriale.
E’ la misura più forte dei precedenti governi per un motivo fondamentale. Accantona
l’ossessione di legiferare sul mercato del lavoro in un paese che ha un problema strutturale di innovazione e produttività. In 10 anni 8 riforme del mercato del lavoro sono una follia dannosa per il lavoro. Lavorare sulle politiche dell’offerta è la cosa più intelligente. I politici che vogliono risultati immediati sul lato della domanda fanno solo demagogia. Il lavoro si crea con gli investimenti e con un ecosistema intelligente e sostenibili che non mortifichi ma incentivi il lavoro. Il dato Istat di marzo è positivo, bene. Bisogna smetterla però di dire che se le cose vanno bene è merito del Governo e se van male è colpa della crisi internazionale. Vale per tutti. Oggi il Governo ha tentato di recuperare il vuoto strategico sul lavoro della legge di bilancio col decreto crescita in cui l’unica certezza è l’aumento del debito e della pressione fiscale. Un capolavoro.
Non bisogna avere paura, è la tesi del suo libro. Bentivogli, è anche un messaggio ai riformisti, alla sinistra italiana?
Siamo nel momento delle più grandi opportunità nella storia dell’umanità. Bisogna fare in modo che lo sia per tutti, questa è la sfida. Vi è un’inflazione del termine riformismo. Il riformismo non è ottimismo ingenuo ma capacità di costruire sempre una strada di progresso specie nei momenti difficili. E’ accettare i fischi, l’impopolarità delle scelte coraggiose, la solitudine delle incomprensioni. Bisogna smetterla di invocare nemici astratti: la globalizzazione, il liberismo, eccetera, un armamentario su cui i sovranisti sono imbattibili e le persone capiscono solo la nostra confusione mentale e la nostra voglia di allontanare da noi le responsabilità. C’è troppo “cinismo chic” di una sinistra in vestaglia che deride ogni speranza. Il mio libro è però un messaggio a tutti, serve un piano di riscossa civica capace di far sentire tutti utili. Bisogna mobilitare le persone sulla base di valori. Al ricorso furbo dei valori tradizionali sovranisti, non si può rispondere con le ideologie. La potenza della testimonianza quotidiana di chi ama le persone più di qualsiasi idea deve essere l’energia vitale di riscatto della condizione umana.