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Romitorio al vecchio Granaro

Alle origini del Romitorio

La Fim ne aveva bisogno.. di Franco Bentivogli in foto (già segr.gen. FIM Cisl)

 

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La Fim ne aveva bisogno…

Quando tirai fuori l’idea del “Romitorio”, vale a dire di un luogo proprio della Fim dedicato alla formazione, la proposta, che pure coglieva esigenze profonde e una vera necessità del “popolo fimmino”, a più d’uno parve inopportuna. Bisogna capire: erano ancora gli anni settanta, solo da pochi anni ci eravamo uniti con Fiom e Uilm nella FLM e la Fim si era spesa più di ogni altra organizzazione per l’unità. Questo convinto e leale impegno unitario l’aveva esposta più degli altri in termini di identità culturale e organizzativa. Il processo unitario, dal Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil in poi, aveva perduto forza trainante ed era declinato nella “ordinaria amministrazione” dei livelli di unità esistenti. Si erano così aperti ampi varchi a spregiudicate logiche di organizzazione, e sarebbe stato miope non coglierne il significato politico non congiunturale.

Per questo l’idea del Romitorio era tutt’altro che peregrina, come i fatto avrebbero poi mostrato. Occorre ricordare che la formazione sindacale era sempre stata uno dei cardini della vita della Fim: momento di crescita culturale e personale per dirigenti e militanti, non solo di acquisizione degli “strumenti del mestiere”. Di grande momento fu la creazione da parte della Cisl del Centro studi di Firenze, dove si è formato – in tutti i sensi – il futuro gruppo dirigente che avrebbe guidato la Fim dagli anni sessanta fino agli anno ottanta. Fu negli anni sessanta che la Fim avvertì il bisogno di una formazione strutturale in proprio: non evidentemente in concorrenza con quella della Cisl, ma misurata su una serie di bisogni che erano maturati, per rispondere ai quali non bastavano più il Centro studi e i campi scuola estivi. L’esigenza appare chiara soprattutto dopo il contratto dei metalmeccanici del 1963, quando si apre la strada alla contrattazione integrativa aziendale e si presentano nuove esigenze formative a sostegno della scelte rivendicative e della maturazione qualitativa dell’organizzazione.

La Fim non può fare a meno di uno strumento per una formazione di massa indirizzata ai giovani entrati a migliaia nei posti di lavoro e nell’organizzazione, come attestano i dati della sua crescita numerica. Si sviluppa un imponente lavoro formativo gestito dalla federazione nazionale e dai sindacati provinciali. Si arriva così, nella seconda metà degli anni sessanta, alla formidabile esperienza formativa di Recesso (nelle colline dell’entroterra genovese), dove ogni estate passava un migliaio di militanti. I programmi erano mirati al cambiamento e il metodo a dir poco rivoluzionario per l’epoca: non più la lezione scolastica, ma l’animazione che coinvolgeva direttamente il partecipante, facendone un protagonista dell’evento pedagogico. Se a ciò aggiungiamo le numerose esperienze locali – ricordo per averla vissuta personalmente e per il suo rilievo quella del triveneto – possiamo dire che in quegli anni la Fim espresse un impegno formativo mai più realizzato in seguito, sia per quantità che per qualità. Non sarebbe male – sia detto per inciso – che qualcuno ponesse mano a una storia della formazione nella Fim. Venne poi l’esperienza unitaria, e unitaria fu anche la formazione, che ebbe carattere prevalentemente tecnico‐politico, con livelli sicuramente apprezzabili ma priva di anima, di capacità di stimolare progetti e produrre identità. La Fim, l‘organizzazione più esposta ai contraccolpi del processo unitario (c’era chi la dava per definitivamente dissolta), ebbe a soffrire molto da questa situazione. Non esagero se affermo che fu la Fim il sindacato trainante, dirigente del processo unitario; e sarebbe stata la Fim a soffrire di più, e a correre i più grossi pericoli, nella crisi dell’unità. E la crisi si annunciò ben presto. Un ano di svolta, almeno per la Fim, fu il 1974. L’organizzazione era tesa tra due poli:

  • vi erano alcuni che ancora puntavano sull’unità, malgrado gli evidenti segno di sfaldamento (tra costoro figuravano nomi illustri, di dirigenti che di lì a poco avrebbero bruciato precipitosamente le tappe nel liquidare i vincoli unitari);
  • altri invece, a tra questi il sottoscritto che in quell’anno era stato eletto segretario generale della Fim, si rendevano conto che il processo di disgregazione stava diventando irreversibile e che occorreva gestire, quali ne fossero stati gli sbocchi (allora imprevedibili), una fase di transizione nella quale la Fim doveva recuperare identità culturale e spessore organizzativo, entrambi essenziali se si voleva esercitare un ruolo politico di un qualche rilievo.

Non per caso uno dei miei primi atti di segretario generale fu la convocazione a Verona, il 3 ottobre 1974, di un esecutivo nazionale dedicato al tema dell’identità della Fim, introdotto da un’importante relazione di Bruno Manghi. Per ricostruire una identità – intendiamoci: non un ritorno al passato, ma una identità rinnovata nelle nuove condizioni e prospettive – era essenziale un’attività di formazione fatta in proprio dalla Fim. Cominciammo a organizzare dei corsi, ma il rilancio della formazione Fim incontrava non poche difficoltà: il mito unitario, malgrado la progressiva degenerazione dei rapporti, pesava e generava paralizzanti sensi di colpa. Da qui anche stanchezza e ricerca di alibi. Non di rado i corsi che la Fim programmava venivano sospesi all’ultimo momento, perché chi avrebbe dovuto parteciparvi quasi sempre non poteva “per sopravvenuti impegni”. La routine quotidiana del lavoro sindacale, con i suoi impegni e le sue “emergenze”, aveva soppiantato altre esigenze primarie quali la formazione, la ricerca della qualità e di nuove prospettive.

In un simile contesto nel quale la Fim avrebbe corso seri rischi se non si fosse sbrigata a recuperare sul serio un minimo di “senso di sé”, maturò l’idea di un piccolo centro fortemente socializzante e altamente qualificato, dove fosse elevato il senso dell’ospitalità e dell’incontro. La Fim doveva recuperare, come elemento della propria identità, anche uno stile di rapporti umani intensi, forti, schietti ma sempre improntati all’amicizia e alla correttezza. Essenziale fu l’apporto di Guido de Guidi, allora operaio alle Acciaierie di Terni: in lui appariva un mix ottimale delle caratteristiche che avrebbero dovuto presiedere, secondo me, a un rilancio della formazione fatta nello stile della Fim. Non era un recupero nostalgico del passato, bensì la ripresa di contatto con una tradizione vitale, indispensabile per costruire all’organizzazione un futuro non precario e un punto di riferimento per i non rassegnati nel mondo del lavoro. Con Guido De Guidi trovammo il luogo e il nome, scrivemmo le “prime carte” con gli “ordini di servizio” e le regole di convivenza.

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La decisione di fare il Romitorio fu ratificata in un consiglio generale che si tenne a Modena nella primavera del 1979, con ancora qualche voce di dissenso. Ma una volta presa la decisione, ci fu una gara nel raccogliere i fondi necessari:; alcune delle strutture che avevano manifestato delle perplessità furono poi tra le più generose. Qualche Fim arrivò a vuotare le proprie casse. Tutti i dirigenti a tempo pieno si autotassarono per tre anni. Il rustico sui monti di Amelia era davvero poco più di un rudere: c’era tutto da rifare. E tutto fu rifatto, con il concorso attivo e convinto dell’intera organizzazione. Prezioso, in questa impresa, fu l’aiuto dell’avvocato Antonio Fontana, per il disbrigo delle complicatissime pratiche per l’acquisto, e dell’architetto Piero Sanpaolo, che seppe intepretare la nostra sensibilità nel lavoro di ricostruzione del Romitorio. Allora facevo anche un altro ragionamento, meno aulico ma forse più pratico, che non mi vergogno di esporre: il fatto di avere una struttura, con i suoi costi fissi, ci avrebbe comunque costretto a fare formazione… Come dire: della serie “utilizzo degli impianti”. Il primo corso cominciò con l’inizio del 1982; nell’ottobre di quell’anno si ebbe l’inaugurazione ufficiale. Ne ricordo l’emozione, in quel teatrino ottocentesco di Amelia, dove avevamo chiamato a discutere sul “sindacalese” personaggi come Beniamino Placido, Sergio De Vecchi, Duccio Demetrio, coordinati da Bruno Manghi. Una scelta non casuale, quella del sindacalese come tema inaugurale; un segno e, anzi, un monito: a superare il linguaggio standardizzato, a usare quello vero, della comunicazione reale e dello scambio di verità ed esperienze. Questa era l’idea forte della formazione al Romitorio. Fu subito un successo. Al Romitorio sono passate tante personalità, come insegnanti dapprima, ma poi anche come amici e “aficionados” del luogo, del clima che vi regnava e delle persone che vi si incontravano. Insomma, venivano al Romitorio come professori e diventavano (anche) amici. Il luogo e il suo stile stimolavano (e stimolano) la comunicazione e la creazione di rapporti. Avevamo visto giusto. Non posso tralasciare qui di menzionare almeno due maestri e amici indimenticabili, che ora non ci sono più e che al Romitorio e alla Fim hanno dato moltissimo: Federico Caffè e Fausto Vicarelli. Già la loro presenza avrebbe da sola giustificato l’impresa. Un’altra cosa avvenne in quel 1982: nascevaLettera Fim” (due numeri zero prima dell’estate, il primo numero effettivo in ottobre). Avevo promosso questa impresa – anch’essa vista dapprima con grande diffidenza perché ritenuta antiunitaria – mosso dalle stesse motivazioni che avevano portato al Romitorio: ricostruire l’identità della Fim.

Occorreva – mi dissi e proposi alla Fim – un foglio agile, da diffondere tra i militanti “per posta e a casa”, in modo che l’immagine della Fim li accompagnasse nella vita quotidiana. La storia successiva lascio ad altri di raccontarla. So che ne vale la pena: il Romitorio ha continuato a vivere e persino a prosperare, con la continuità della presenza di Guido, che vi si era trasferito con la moglie Carla (al Romitorio sono nati i due figli Paolo e Stefano), di Aleandro Menciotti, ottimo militante e grande cuoco, della bravissima segretaria Carla Leonardi ha assicurato un’équipe che ha creato e garantito nel tempo quel clima conviviale che contagia gli ospiti. In tutto ciò è stato determinante il ruolo dei responsabili nazionali della formazione, a cominciare da Fausto Tortora, che è stato il primo, e proseguendo con Franco Amicucci, Antonio Cocozza, Luigi Lama, Beppe Lazzaro, Rosario Iaccarino…. Soprattutto, il Romitorio ha prodotto e produce formazione come occorre alla Fim: alto livello tecnico in un clima di intensa socializzazione, o meglio fraternizzazione, come vuole il nome (e l’origine lontana) del Romitorio.