La riscossa del lavoro contro la paura
1° Maggio 2019
Non è la tecnologia a cancellare l’occupazione. È la sua assenza. La tecnofobia è una malattia mortale. Siamo un Paese campione di inventori e somaro nell’innovazione. Parla Bentivogli, capo della Fim e autore di un manuale di resistenza alle balle
“Un Paese che investe poco nelle memoria e nulla nel suo futuro”. E, come se già questo non bastasse, tra “una sinistra pigra in vestaglia” che “vive le periferie da turista” e l’onda nazionalpopulista, in Italia prospera la tecnofobia, “malattia della quale siamo prigionieri da anni”. Robotica avanzata, Intelligenza artificiale, big data, blockchain sono solo alcune delle nuove voci del lavoro che ancora in molti sono restii ad inserire nel vocabolario dello sviluppo e dell’innovazione. Anzi li osteggiano, credendo e spiegando che le nuove macchine produrranno disoccupazione. È questa la malattia che frena l’innovazione e lo sviluppo, quella cui Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl ha dedicato un libro, anzi un manuale – come recita il sottotitolo – di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia.
Bentivogli, Contrordine compagni è una frase con cui Guareschi indicava l’obbedienza pronta cieca e assoluta dei comunisti al partito. L’averla utilizzata come titolo del suo saggio indica che, pur altrove e in altra epoca, c’è ancora una massa che si muove su precise indicazioni senza porsi il problema di comprendere, fino anche al punto di dare per scontato ciò che lei ritiene una palese falsità, ovvero che le nuove tecnologie ridurranno i posti di lavoro?
«La vulgata degli impresari della paura, trasversali dalla sinistra pigra in vestaglia ai nazionalpopulisti, usa dei mantra ripetuti mille volte. Solo nelle orecchie degli analfabeti funzionali o di chi è in malafede una balla diventa verità. Non è la tecnologia a cancellare i posti di lavoro. È la sua assenza. Le delocalizzazioni sono iniziate negli anni ’80 e ’90 proprio per cambi generazionali infelici nelle famiglie del capitalismo italiano e il loro rilfesso negli scarsi investimenti proprio in nuove tecnologie e nuovi sistemi di organizzazione del lavoro. I paesi più high tech del mondo, Corea del Sud e Giappone sono quelli con la più bassa disoccupazione. I paesi che si preparano ai cambiamenti in anticipo, riducono i rischi e ampliano le opportunità delle trasformazioni».
Invece, il lavoro in Italia continua a mancare, ma nel contempo cresce da più parti la paura che la rivoluzione digitale riduca ancor di più le opportunità per le giovani generazioni. Lei rifiuta uno scenario del genere e, anzi, questa paura l’ha, appunto, definita tecnofobia. Quanto è diffusa nel nostro Paese e quanto rischia di produrre conseguenze negative?
«Il nostro è un Paese che investe poco nella memoria e per nulla sul suo futuro. La tecnofobia è una malattia di cui siamo prigionieri da anni. Siamo un paese campione di inventori e somaro nell’innovazione. In Italia la tv a colori è arrivata quindici anni dopo il resto d’Europa, perché su tutto parte sempre una straordinaria capacità a coalizzarsi contro tutto ciò che è innovazione. Le regioni dentro il gorgo dell’innovazione hanno la disoccupazione più bassa. Quelle lontane sono in crisi. Questa è la scelta, si può decidere su come innovare ma è evidente che l’innovazione logora chi non la fa».
Lei individua nella capacità di governare la trasformazione verso la quarta rivoluzione industriale come condizione imprescindibile per avere da essa vantaggi. Ma in Italia c’è tutta questa capacità? Esiste una classe dirigente – dalla politica al mondo delle imprese senza tralasciare il sindacato – all’altezza di questo compito. O piuttosto dilaga ancora quella che lei ha definito come mediocrazia, insomma la prevalenza del mediocre?
«La mediocrazia non è un male di cui il nostro Paese ha il monopolio. Diciamo che però siamo competitivi. Serve lungimiranza, pensieri lunghi, capacità progettuali, coraggio e competenza. La scelta dei mediocri è trasversale perché la zona comfort è non cambiare. Così ci si sta giocando tutto il patrimonio della nostra storia senza costruirne di nuovo. Servono cittadini più esigenti con chi li rappresenta. C’è un tirare a campare che è consentito da una rabbiosità inconcludente che si riduce, in fondo, ad una delega in bianco. Torniamo a promuovere consapevolezza e partecipazione e le cose cambieranno».
Dalle pagine del suo libro emerge l’immagine di un Paese dove spesso, e non da oggi, i talenti fanno paura e generano tra i mediocri una sorta di autodifesa. Anche questo un ostacolo per recuperare quella competitività rispetto ad altre nazioni che, in alcuni casi come la Germania, hanno modificato pure il loro impianto normativo per essere pronti alla svolta digitale?
«Se sono a loro agio i mediocri, vuol dire che i talenti sono fuori posto. Così continueremo a importare braccia e a esportare cervelli e alla fuga delle persone di valore dai luoghi più importanti per un Paese. Queste diaspore impoveriscono veramente una nazione. Bisogna rifertilizzare i luoghi della rappresentanza affinché siano capaci di generatività».
Quanto la preoccupa l’ondata populista e sovranista declinata sul fronte del lavoro e dello sviluppo tecnologico? Lei sostiene che i ricchi votano a sinistra e i poveri a destra, cosa c’è che non funziona?
«La sinistra è in crisi ovunque, è sfumata la sua funzione storica di lotta alle disuguaglianze anche perché come i libertisti le sa leggere solo attraverso il determinismo economico e l’indice di Gini. Quando sento nella bella vittoria di Sanchez, da parte di alcuni commentatori della sinistra ztl italiana, la riscossa di una “voglia si socialismo”, questo fa capire quanto nella ztl si sia perso il contatto con il mondo. Le persone si sono accorte che l’establishment della sinistra vive il lavoro, le periferie da “turista” e piuttosto vota per gli imbroglioni nazionalpopulisti. Lo scarso livello di istruzione e la pessima qualità dell’informazione hanno porta questi “falsari”, come li chiama David Parenzo nel suo libro, finanche a governare».
Il digital divide appare quasi spaventoso secondo dati recenti in base ai quali su cinque piccole e medie imprese quattro considerano internet poco o nulla utile. Di chi è figlia questa arretratezza e come si può recuperare terreno?
«Dell’ostilità all’innovazione in tutti i campi. I dati di Infocamere sono drammatici e sono il prologo di imprese destinate a chiudere. È un peccato perché il digitale, le infrastrutture di blockchain e l’intelligenza artificiale sono un volano formidabile proprio per le piccole imprese».
Cento anni fa don Sturzo fece l’appello ai liberi e forti. Non gli andò troppo bene: venne isolato anche dal suo partito. Il coraggio di osare spaventa ancora un secolo dopo, in Italia?
«Don Luigi Sturzo ha scritto parole forti e attuali che hanno retto un secolo. Quel conformismo è tornato fortissimo in Italia. I pensieri strategici e innovativi, lo dimostra anche l’intelligenza artificiale provengono sempre da pensieri fuori schema, dalla capacità di uscire dalle consuetudini e di essere disruptive rispetto all’esistente».
A Torino dove c’erano gli stabilimenti Fiat sta nascendo il Manufacturing Technology Center, che si candida diventare il punto di riferimento in Italia nel settore della manifattura avanzata non solo per il sistema industriale, ma anche per le pubbliche amministrazioni. È un simbolo di quello che sarà quella che è stata la città dell’automobile? E, ancora, quale futuro vede lei, dal suo osservatorio di capo dei matalmeccanici della Csl, per il settore dell’automotive a Torino?
«I prossimi saranno due anni chiave. Da un lato la grande trasformazione verso la nuova mobilità elettrica e a guida autonoma e dall’altro il progressivo consolidamento del settore a livello planetario. Partite su cui Fca deve recuperare ritardi importanti. Ci auguriamo che non si pensi ad un disimpegno dall’automotive ma si punti sul rilancio. In questa grande sfida ci abbiamo messo qualcosa più della faccia. Ora bisogna puntare a crescere dentro la grande partita delle alleanze strategiche».
Sempre nell’ex città dell’automobile, l’amministrazione Cinquestelle continua a restringere spazi al traffico automobilistico, la sindaca Chiara Appendino è stata per questo duramente contestata e lo stesso partito al governo impone l’ecotassa. Cos’è un nuovo luddismo mascherato da ambientalismo: ti faccio vivere meglio, ma tolgo posti di lavoro?
«C’è un attacco alla mobilità inquinante e va bene ma è singolare quanto si preservi l’inquinamento dovuto dal riscaldamento degli immobili. Sull’ambiente bisogna fare sul serio ma non deve essere una scusa per dare corpo agli ideologismi anti-industriali. L’immagine della formula E, auto elettriche insomma, a Roma alimentata da un gruppo elettrogeno a gasolio fa capire quanta speculazione ci sia».
Oggi si festeggia il Primo Maggio, e i sindacati a Torino hanno richiamato a un momento di unione temendo e forse prevedendo tensioni, ancora una volta sulla Tav. Quale il suo messaggio su una vicenda che ormai ha assunto anche un significato simbolico oltre al valore di un’opera di tale portata per lo sviluppo economico non certo solo del Piemonte?
«Sono favorevole alla Tav, abbiamo 100 miliardi di opere pubbliche bloccate. Stop che arricchiscono qualcuno e che danneggiano il paese senza nessun beneficio per l’ambiente. Siamo al diciassettesimo posto in Europa per carenza di infrastrutture. E’ ora di andare avanti, solo In Italia si possono fare sette analisi costi-benefici cambiando la commissione fino a che se ne trova una contraria».