Corridoi umanitari: cinque proposte così ovvie da sembrare impossibili
Articolo di Giacomina Cassina
Non so come finirà il Consiglio Europeo straordinario dell’UE, convocato d’urgenza per discutere le misure da prendere a seguito della mattanza di uomini, donne e bambini del 19 aprile scorso e al fallimento più che prevedibile della missione Triton. Non voglio nemmeno prendere in conto le indiscrezioni sulla bozza di “conclusioni” del Presidente del Consiglio UE che leggeremo stasera. Temo di saper immaginare troppo bene che cosa conterrà e tremo se penso al linguaggio formalmente pietoso e sostanzialmente burocratico che sarà usato: identificazione, individuazione e distruzione dei barconi degli scafisti, qualche soldino in più per le operazioni di salvataggio dei naufraghi e una spalmatura dei disperati (sembra si pensi a 5 mila …) nei paesi europei diversi da quelli di sbarco.
Spero invece che, tra persone di buona volontà si possa discutere di un piano semplice come questo, per realizzare immediatamente dei corridoi umanitari per le persone che fuggono dalla guerra e dalla fame:
1) Potenziare in modo significativo tutte le ambasciate dei paesi UE negli stati del Corno d’ Africa e dell’area del Sahel che sono considerati dittature o autocrazie o paesi fortemente destabilizzati, istituendo task force competenti per esaminare le richieste di visto (per rifugiati e/o migranti e/o civili che fuggono da zone di guerra); tali strutture dovranno essere composte anche da rappresentanti di organizzazioni umanitarie; il personale diplomatico aggiuntivo, insieme ai civili delle organizzazioni umanitarie, avrà anche il compito di contattare direttamente le persone che sono sotto controllo o nascoste o imprigionate, negoziando con le autorità, il loro espatrio;
2) Prendere in considerazione prioritariamente le domande di chi chiede di essere considerato rifugiato o vuole ottenere una qualche forma di protezione umanitaria, ma lasciare al paese che lo accoglierà la decisione finale sulla fondatezza della domanda e la collocazione definitiva delle persone con le loro famiglie; una seconda priorità (da esaminare in contemporanea con la prima) riguarderà le domande delle persone che vogliono migrare per ragioni economiche e/o ambientali, chiedendo loro solo di esplicitare un “progetto migratorio” la cui riuscita dovrà essere valutata in seguito, almeno un anno dopo che le persone saranno arrivate nel paese di destinazione scelto;
3) Nelle aree di guerra (Siria, Libia, Iraq, Yemen, ecc.) o dove non ci sono strutture diplomatiche, il compito di esaminare le domande di cui ai punti precedenti spetterà a qualsiasi struttura militare europea presente, debitamente integrata da militari o civili con competenze ed esperienza in questioni umanitarie; in assenza di militari, il reperimento e la segnalazione delle persone richiedenti asilo o protezione sarà compito dei servizi di intelligence dei paesi UE (che stanno dappertutto) o dei paesi considerati “amici”;
4) Il “visto umanitario” dovrà essere rilasciato immediatamente o, al massimo, entro 24 ore, tempo in cui l’Ambasciata responsabile dovrà assicurare l’incolumità del richiedente; il visto per “progetto migratorio” dovrà essere rilasciato al massimo entro una settimana; gli spostamenti verso l’Europa dovranno essere effettuati per via aerea o marittima, utilizzando i mezzi militari di stanza nel Mediterraneo o cargo privati con cui si potranno stabilire “quote” di persone da trasportare;
5) Agli inutili, imbelli e costosi Uffici del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (in capo alla Mogherini) resterà il compito di rilevare i dati statistici di questa azione e di informare periodicamente le autorità UE.
Corollario per la discussione: a chi obietta che milioni e milioni si precipiteranno nelle nostre ambasciate, chiedere se si preferisce che questi milioni muoiano in mare e ricordare che un milione di persone che arrivassero in Europa rappresenterebbe meno dello 0,2% della popolazione dell’UE; a chi obietta che bisogna investire nei paesi d’origine, suggerire di osservare che cosa fa la Cina nei paesi qui presi in considerazione e domandarsi che cosa facciamo noi e le nostre imprese; a chi afferma che non è compito delle Ambasciate salvare i disperati, consigliare l’immediata lettura de “La banalità del bene” di Enrico Deaglio (storia di Giorgio Perlasca) o di informarsi da qualche profugo cileno che cosa fece il nostro Ambasciatore in Cile, Tomaso de Vergottini, durante la dittatura di Pinochet; a chi obietta che questa operazione costerebbe troppo, chiedere di calcolare che cosa costerebbe una serie di “guerre di contenimento” dei fenomeni migratori che, comunque, nessuno è in grado di fermare, se non ad un costo di vite umane che, personalmente, potrei paragonare solo ad un quarto olocausto dopo quello degli armeni, quello degli ebrei e quello dell’ex Jugoslavia.
Un antico amico d’infanzia (non italiano, oggi diplomatico di alto livello) mi diceva, un paio di mesi fa, che l’intervento di aiuto allo sviluppo non può più esser pensato per paesi o per aree, ma deve affrontare i grandi problemi trasversali del mondo: salvaguardia dell’ambiente, accesso all’acqua, accesso all’energia, migrazioni. Ma che questa linea, purtroppo, viene contrastata da chi sostiene che la priorità è la sicurezza (perché la sicurezza è collegata al potente business della guerra…). Caro amico, quanto hai ragione!