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Torna agli anni 2015 della storia Fim

L’11 settembre 2001 due aerei dirottati da terroristi di Al-Qaida si abbattono sulle torri gemelle del World Trade Center di New York, un terzo si lancia sul Pentagono, un quarto precipita in un campo della Pennsylvania. I morti sono circa 3.000. L’amministrazione Bush risponde lanciando una strategia di guerra globale al terrorismo, a cominciare dall’intervento in Afghanistan, dove la Nato prenderà la direzione delle operazioni, cui partecipa anche l’Italia con un proprio contingente.
Nel marzo 2003 gli Usa, con il concorso di altri paesi (la “coalizione dei volenterosi”, cui partecipano la Gran Bretagna, la Spagna e anche l’Italia), invadono l’Iraq. 

In tutto il mondo si leva la protesta contro la guerra, con grandi manifestazioni di massa cui partecipano attivamente i sindacati. Le operazioni portano in breve alla sconfitta di Saddam Hussein (catturato nel dicembre 2003 e giustiziato alla fine del 2006) ma non pacificano il paese, che precipita nella guerra civile. Una serie di attentati si abbatte sui “volenterosi”: nel novembre 2003 è devastata la base italiana di Nassiriya; in Spagna nel marzo 2004 sono colpiti i treni locali a Madrid; in Gran Bretagna sono presi di mira la metropolitana e gli autobus di Londra (centinaia di morti, migliaia di feriti). Dal caos iracheno emerge il gruppo jihadista guidato da Abu Bakr al-Baghdady, che darà vita al famigerato “Stato islamico” dell’Iraq, poi proclamato Califfato di Iraq e Siria (Isis).

Intanto si aggrava la crisi israelo-palestinese. Dopo il fallimento dei colloqui a Camp David tra Barak e Arafat (che morirà nel novembre 2004), scoppia nell’autunno del 2000 la seconda Intifada. La situazione si andrà aggravando durante il lungo governo del leader di destra Netanyau, soprattutto nella striscia di Gaza (governata dal gruppo radicale di Hamas) devastata da una serie guerre, in particolare agli inizi del 2009 e nel 2014. La vittoria di “Bibi” Netanyahu nelle elezioni israeliane del marzo 2015 non promette nulla di buono… Il cosiddetto “Accordo di Abramo”(settembre 2020), firmato sotto l’egida del  presidente Usa Trump (“normalizzazione” dei rapporti tra Israele, gli Emirati arabi e il Bahrain), non ha introdotto novità positive, anzi… Nemmeno la caduta di Netanyahu, cacciato all’opposizione dopo 15 anni di governo, e la formazione di un governo di “Grosse Koalition” (tutti dentro, da destra a sinistra compreso un partito arabo, settembre 2020) produrrà cambiamenti sostanziali. Si inasprisce anzi la tensione tra Israele e l’Iran, con la ripetuta minaccia di interventi militari da entrambe le parti.

Nel mondo mediorientale e nordafricano una fragile speranza era stata accesa dalla cosiddetta “Primavera araba”. La rivolta dilaga nel Nordafrica e nel Medio Oriente. Nel giro di un anno tre capi di stato (in Tunisia, Egitto, Yemen) sono costretti alla dimissioni o alla fuga. In Libia Muammar Gheddafi viene ucciso dai ribelli sostenuti dall’intervento militare di Francia, Gran Bretagna e – in parte – anche Italia. Invece della sperata primavera democratica la situazione degenera nel caos, in una guerra di tutti contro tutti. La guerra civile devasta la Siria, dove i ribelli tra loro divisi in gruppi contrapposti non riescono ad abbattere il regime di Bashar al-Assad; devastante è l’azione del Califfato di al-Baghdady (il mondo è inorridito dalle distruzioni di celebri siti archeologici e dalle esecuzioni degli ostaggi, esibite da una macabra campagna di comunicazione). Migliaia di giovani cittadini europei, di origine musulmana, si arruolano nelle schiere di Isis.

Una serie di attentati operata da jihadisti di cittadinanza europea e nordamericana imperversa soprattutto in Europa, con particolare virulenza in Francia, Belgio e Germania (i più clamorosi: gennaio 2015, assalto alla redazione di Charlie-Hebdo, 12 morti; novembre 2015 strage del Bataclan sempre a Parigi, 137 morti; luglio 2016 strage di Nizza, luglio 2016, 87 morti;  marzo 2016, aeroporto di Bruxelles, 35 morti; 19 dicembre mercatino di Natale Berlino, 12 morti), ma anche nel regno Unito, Norvegia, Catalogna, Macedonia… 

Il disordine crescente in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale e subsahariana ha riflessi che colpiscono direttamente l’Italia: aumenta a dismisura l’afflusso di profughi attraverso il Mediterraneo, con migliaia di morti annegati. L’Italia nel 2013 organizza l’operazione Mare Nostrum impegnando la Marina militare a pattugliare il Canale di Sicilia; obiettivo primario è quello umanitario di salvare il maggior numero possibile di naufraghi. Verso la fine del 2014 Mare Nostrum viene sostituito dall’operazione Triton a guida della Unione europea, ma molto meno efficace. I tentativi di revisione delle regole di Dublino, non approdano a misure vincolanti ma lasciano l’accoglienza dei migranti alla buona volontà dei singoli stati: l’Europa abbandona di fatto a se stessi i paesi più esposti (Italia e Grecia), mentre la pressione migratoria assume dimensioni bibliche, soprattutto dopo la vittoria dei Talebani in Afghanistan e il vile abbandono del paese da parte degli USA e degli alleati occidentali (tra cui l’Italia).  

Nei primi anni 2000 si verificano importanti avvicendamenti nelle leadership politiche mondiali. Nell’ottobre 2006 viene eletto presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva, detto Lula (la sua presidenza durerà fino al 2010): uomo della sinistra e del popolo (capo del Partito dei lavoratori), è stato leader del sindacato metalmeccanico della Cut brasiliana, grande amico da sempre della Fim e della Cisl. La politica di Lula è proseguita da Dilma Roussef, esponente del partito di Lula, eletta presidente nel 2010, poi costretta alle dimissioni in seguito a un’indagine per corruzione; nel 2018 le elezioni presidenziali portano alla guida del Brasile il populista di destra Jair Bolsonaro, responsabile di una politica irresponsabile e disastrosa. Al momento di chiudere queste note (2022), si riaffaccia la prospettiva di una nuova presidenza Lula, pienamente riabilitato dopo un periodo di persecuzione e anche di detenzione.

Il 25 novembre 2016 muore a L’Avana Fidel Castro, mentre in America Latina la leadership del populismo anti-USA è assunta dal Venezuela di Nicolàs Maduro, successore di Hugo Chàvez, che opprime con una spietata dittatura un paese sconvolto da una drammatica crisi economica e sociale.

 

Spettacolari e drammatiche sono le vicende che hanno precipitato in una profonda crisi gli Stati Uniti. Nel novembre 2008 viene eletto presidente Barack Hussein Obama, un afroamericano dal nome con inquietanti risonanze islamiche, poi rieletto nel 2012. Sia pure tra contraddizioni e incertezze, la sua politica porta il segno di una spiccata attenzione ai problemi sociali interni (p. es. riforma sanitaria) e di una apertura internazionale multipolare, non più aggressiva e tendenzialmente volta a un progressivo disimpegno militare. Il 2008 è stato anche l’anno della grande crisi finanziaria innescata dalla speculazione sui mutui subprime ( emblematico il fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers) 

Le speranze suscitate dall’ “era Obama” (durata due mandati) sono brutalmente mortificate dall’ascesa alla presidenza USA del populista reazionario Donald Trump, volgare assertore del principio “America first”, che si concretizza sul piano internazionale nel ritiro dall’impegno multilaterale e su quello interno dal disinteresse per la situazione sociale. Il regime di “America first” crolla rovinosamente nelle elezioni presidenziali del dicembre 2020, quando Trump si rifiuta di riconoscere la vittoria del democratico Joe Biden e si lancia in una serie di ricorsi legali tutti regolarmente respinti. L’epilogo è un pezzo di film catastrofico: il 6 gennaio 2021 una pittoresca folla di scalmanati, aizzata dallo steso Trump, dà l’assalto a Capitol Hill, al simbolo stesso della democrazia americana. 

La società americana si ritrova drammaticamente dilaniata tra due schieramenti incapaci di riconoscimento reciproco. Joe Biden ha vinto, ma la sua amministrazione non ha vita facile, agitata al suo interno da un aspro conflitto tra una componente moderata e una radicale. Ancor più difficile si presenta la situazione internazionale, malgrado le speranze suscitate dalla ripresa del multilateralismo. Catastrofico è l’intempestivo abbandono della presenza in Afghanistan, una fuga indecorosa da una pesante responsabilità, condivisa con gli alleati (tra cui l’Italia).

Proseguendo una tendenza già avviata da Obama, l’interesse degli USA si sposta progressivamente in estremo oriente: preoccupazione dominante è sempre più la competizione con la Cina per il primato geopolitico, sul piano economico ma anche militare.

Veniamo all’Europa. Il 1° gennaio 2002 entra in funzione l’Euro, che sostituisce le monete nazionali in dodici paesi, tra cui l’Italia. Nel 2004 l’Unione europea si allarga a Est, riunendo 25 paesi che diverranno 28 con l’entrata di Romania e Bulgaria nel 2007 e della Croazia nel 2013. Ma il processo di integrazione ristagna; la ratifica della cosiddetta Costituzione europea, frutto di faticosi compromessi, viene respinta da due paesi fondatori, Francia e Olanda, mentre in altri vengono rinviate le procedure di ratifica. Soprattutto il sistema Ue vacilla con l’esplodere della grande crisi economica, che dagli Stati Uniti, dal 2008, dilaga nel resto del mondo e mette a dura prova il sistema europeo dell’Euro. In difficoltà sono soprattutto i paesi dell’area Sud dell’Europa – Spagna, Portogallo, Italia, in parte anche la Francia, e soprattutto la Grecia, la cui possibile bancarotta minaccia di far saltare tutto il sistema dell’Euro. Sotto accusa sono le politiche di rigore, sostenute soprattutto dalla Germania, paese egemone, in parte attenuate dalle misure adottate dalla Banca centrale europea.

In Germania nell’autunno 2005 inizia l’era di Angela Merkel, leader della Cdu (partito democratico cristiano, alleato dell’omologo bavarese Csu) che vince il confronto elettorale con il socialdemocratico Schröder, imponendosi progressivamente come leader di prima classe. Dall’autunno 2013 guida una “Grande Coalizione” insieme ai socialdemocratici, ma in posizione di indiscussa leadership. La coalizione entra in crisi agli inizi degli anni 20, e con essa tramonta l’era Merkel. Le elezioni del settembre 2021 segnano un drastico ridimensionamento di Cdu e Csu. Il  crollo dell’estrema destra, una crescita dei Verdi e un’importante affermazione della Spd (socialdemocratici). Si forma una coalizione tra Spd, Verdi e Fdp (liberali), guidata dal socialdemocratico Olaf Scholz. Si apre la prospettiva di politiche economiche meno condizionate dall’ortodossia del bilancio in pareggio, più coraggiose ed espansive. Non per nulla proprio Olaf Scholz è stato uno dei principali promotori del massiccio intervento finanziario della Unione europea, denominato NextGenerationEu, per stimolare una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa” per rispondere all’emergenza sociale ed economica provocata dal dilagare della pandemia Covid19.  

  

In Francia nel 2012 tornano alla presidenza i socialisti con l’elezione di François Hollande, la cui leadership è tuttavia sempre più debole; allarmante è la crescita dell’estrema destra razzista del Fronte nazionale di Marine Le Pen, che dai sondaggi risulta come il primo partito di Francia. A Marine Le Pen nel 2017 si oppone vittoriosamente il giovane tecnocrate Emmanuel Macron, con un breve passato socialista poi fondatore di un proprio movimento centrista (La République en Marche). Macron non ha avuto vita facile, e ha dovuto fare fronte a pesanti movimenti di protesta, come quello dei “gilet gialli” insorti violentemente contro la proposta di una tassa sul carburante. Ciò malgrado Macron si è imposto con autorevolezza sul piano europeo, dialogando strettamente con Algela Merkel e con Mario Draghi per rafforzare un nucleo centrale dell’Unione, anche per contrastare i populismi reazionari soprattutto di Polonia e Ungheria, veri e propri corpi estranei nel tessuto democratico della Ue.

Nel frattempo il crescente movimento anti-Ue di un’ampia opinione britannica, guidata dal premier conservatore Boris Johnson, è approdato all’uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione europea il 31 gennaio 2020. Non è stato un divorzio indolore, i negoziati per aggiustare i nuovi rapporti tra Uk e Ue non sono del tutto conclusi per il persistere di intricate complicazioni soprattutto con il regime di rapporti con l’Irlanda del Nord e per gravi conseguenze sul terreno dell’economia. 

Intanto la Russia vede (e sostiene) la crescita del potere di Vladimir Putin, incontrastato leader grazie all’alternanza tra le cariche di presidente (nel 2015 al terzo mandato) e di primo ministro, garantita dal gioco di squadra con i fidatissimi collaboratori. L’aggressiva politica annessionistica di Putin nei confronti dell’Ucraina (2014-2015) crea gravi contrasti con i governi europei e degli Usa, con contorno di sanzioni che pesano gravemente sull’economia russa. Ma Putin gode di un incontrastato consenso nel suo paese. La pressione di Putin sull’Ucraina torna a farsi minacciosa all’inizio degli anni ’20. Ad accrescere le preoccupazioni (soprattutto americane) per il dinamismo espansivo della Russia di Putin, è il massiccio intervento dell’esercito russo nel gennaio 2022 per reprimere la rivolta popolare contro il governo della Repubblica del Kazakistan. 

Grandi avvicendamenti nella Chiesa cattolica. Il 2 aprile 2005 muore Karol Wojtila, Papa Giovanni Paolo II. Centinaia di migliaia di pellegrini invadono Roma da tutto il mondo. Il 19 aprile viene eletto Papa, con il nome di Benedetto XVI, il teologo e cardinale bavarese Joseph Ratzinger, chiamato a governare una Chiesa dilaniata da scandali e oscuri giochi di potere. L’11 febbraio 2013 con un gesto-shock il Papa rinuncia al suo ufficio, dichiarando di non avere più le forze per affrontare la difficile situazione della Chiesa. Un mese dopo, il 13 marzo, viene eletto Papa il gesuita argentino Jorge Bergoglio con il nome di Francesco. Le sue prime parole al popolo che lo acclama in piazza San Pietro sono: “buona sera”. Il suo stile pastorale diretto, aperto e non convenzionale gli assicura una smisurata popolarità, soprattutto in buona parte dell’opinione di sinistra orfana di leader efficaci e credibili. Grande consenso nel “popolo progressista” ottengono le sue encicliche “Laudato si’” (ecologica) e “Fratelli tutti” (sociale).

Veniamo all’Italia, cominciando dagli eventi tragici che hanno sconvolto l’Italia nei primi vent’anni del secolo. Un’ondata di terremoti disastrosi ha messo a dura prova le popolazioni e le strutture economiche e sociali del Paese. Nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009 un terribile scisma sconvolge il centro Italia, con epicentro la zona dell’Aquila. Il capoluogo abruzzese è devastato nel suo patrimonio edilizio e nella sua vita sociale ed economica; a lungo i suoi abitanti sono trasferiti nelle cosiddette new towns, villaggi residenziali costruiti ai margini della città storica, che ancor oggi (2022) porta evidenti i segni del disastro. Numerose le vittime: oltre 300. Tre anni dopo, tra il 20 e il 31maggio 2012, una serie di scosse fortissime (6 gradi circa della scala Richter) sconvolge i cuore dell’Emilia con epicentro nel modenese. Le vittime sono un trentina, ma particolarmente gravi sono le devastazioni nel tessuto produttivo di un’area tra le più innovative e prospere del paese. A cominciare dall’alba del 24 agosto del 2016, per proseguire fino ai primi mesi del 2017, uno sciame di potentissime scosse (fin oltre i 6 gradi Richter) devasta l’area dell’Appennino ai confini tra Lazio Marche e Abruzzo, colpendo al cuore la storica civiltà dell’Appennino centrale. Interi paesi sono praticamente cancellati; una prospera cittadina come Amatrice non esiste più. I morti sono stati oltre trecento. Purtroppo, ancora una volta il disastro ha messo a nudo le inefficienze della amministrazione pubblica e delle sue strutture di intervento.

Passiamo alla politica. In Italia i primi anni del 2000 vedono alternarsi al governo le coalizioni di centro-destra e di centro sinistra. Nelle elezioni del maggio 2001 Silvio Berlusconi torna al governo, a capo della coalizione della Casa delle libertà che gode di un’ampia maggioranza. Si riaffaccia il terrorismo: il 19 marzo 2002 viene assassinato a Bologna il giuslavorista Marco Biagi da un commando delle Br. Come nel caso di Massimo D’Antona, ancora una volta i terroristi si accaniscono contro un consulente riformista del governo in materia di politiche del lavoro.
Entra in crisi il modello della concertazione tra governo e parti sociali, mentre si acuiscono le tensioni all’interno del sindacato, soprattutto in margine al “Patto per l’Italia” firmato da Cisl e Uil ma respinto dalla Cgil. Il centro-sinistra tornerà a vincere nelle elezioni dell’aprile 2006, ma con una maggioranza talmente risicata, specie al Senato, da dover rassegnare le dimissioni nel 2008. Le elezioni successive saranno vinte a larga maggioranza dalla coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi.

Intanto l’economia italiana entra in una lunga fase di ristagno. Se attorno alla metà del decennio il tasso di disoccupazione era calato fin sotto il 7 per cento, lo si doveva in buona parte a contratti di lavoro precari e con basse retribuzioni, oltre che all’emersione dal “nero” di un numero notevole di lavoratori immigrati. Ma con l’esplodere della crisi dal 2008 in poi il tasso di disoccupazione raddoppia, con livelli particolarmente gravi tra i giovani, le donne e nel Mezzogiorno.
Mentre latitano le politiche di sviluppo, in assenza di un qualsiasi tentativo di politica industriale, il nostro apparato industriale entra in una crisi drammatica, e proprio in settori strategici, segnatamente nell’area metalmeccanica. In primo piano la siderurgia, con in testa  la maggiore acciaieria italiana ed europea, l’Ilva di Taranto, ancora in mezzo al guado sulla via del risanamento e della ripresa produttiva. Né è da dimenticare la crisi dell’alluminio, con la chiusura dell’Alcoa in Sardegna. Grave anche la situazione nel settore degli elettrodomestici, dove si consuma la crisi dell’Indesit passata in proprietà dell’americana Whirpool (che alla fine diserta dallo stabilimento di Napoli). Ma la crisi miete vittime anche nella piccola e media industria, con il fallimento di migliaia di imprese e il contorno di numerosi episodi tragici come i suicidi di imprenditori.

Particolare rilevanza assume la crisi della Fiat precipitata nel 2002, con l’annuncio di cassa integrazione massiccia e la minaccia di chiusure di stabilimenti, in particolare di Termini Imerese. È una crisi non solo finanziaria e di mercato, ma anche di gruppo dirigente e di strategie produttive, esplosa in coincidenza simbolica con la scomparsa dei leader storici della famiglia Agnelli, Gianni e Umberto, morti rispettivamente nel 2003 e 2004. Nel 2004 viene chiamato alla guida della Fiat come amministratore delegato Sergio Marchionne, che con audacia e spregiudicatezza dimensiona il gruppo su orizzonti globali, ne sposta il baricentro negli Stati Uniti (acquisizione della Chrysler), avvia tra molte contraddizioni e contro l’ostinata opposizione di una parte del sindacato (Fiom-Cgil) un ambizioso programma per l’Italia, che agli inizi del 2015 comincia a dare i primi frutti, tra cui un promettente aumento dell’occupazione. Scompare il marchio Fiat, lo sostituisce FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Marchionne muore prematuramente nel 2018; di lì a poco, l’alleanza industriale si allarga al gruppo francese PSA, creando così un nuovo conglomerato internazionale battezzato con il poetico nome Stellantis, con sede istituzionale in Olanda (2021). Purtroppo il cielo si rabbuia minacciosamente sopra l’automotive che entra in crisi per la drammatica scarsità di componenti.

L’acuirsi della crisi economica esplosa negli anni 2007-2008 finisce con lo sconvolgere anche il quadro politico italiano. Sotto la pressione politica dell’Europa nel novembre 2011, quando l’Italia è sull’orlo della bancarotta, il presidente della Repubblica Napolitano impone al governo Berlusconi, ormai privo di una maggioranza, di farsi da parte per lasciare posto a un governo “tecnico” di emergenza presieduto dall’economista Mario Monti, che riesce a riportare i conti in relativo ordine, in sostanza a salvare l’Italia dalla bancarotta. 

Durante il governo Monti cambia profondamente il quadro politico. Le elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 vedono il Pd di Bersani vincitore di stretta misura sulla coalizione di centro-destra (Popolo della Libertà) guidata da Berlusconi (entrambi alla soglia del 30%), mentre si affaccia come terzo protagonista il movimento 5 Stelle animato dal comico Beppe Grillo (oltre il 25%), indisponibile a qualunque mediazione e alleanza. Nel frattempo Berlusconi cambia nome al partito, tornando al “Forza Italia” delle origini, mentre il suo discepolo Alfano lo tradisce andando a fondare un partitello di centro-destra tutto suo. 

Il Paese appare comunque sempre più ingovernabile, le forze politiche non sono in grado di esprimere un governo e nemmeno di designare un successore di Napolitano alla presidenza della Repubblica, allo scadere del suo mandato (aprile 2013). Tant’è che, dopo le clamorose bocciature di candidati Pd come Marini e Prodi (anche dall’interno del loro stesso partito), viene rieletto Napolitano (22 aprile 2013), il quale si dimetterà agli inizi del 2015. Gli succede Sergio Mattarella, eletto il 31 gennaio.
Il governo Monti rimane in carica fino all’aprile del 2013. Viene incaricato di formare un nuovo governo Enrico Letta, vicesegretario del Pd. Il suo governo conduce tuttavia vita stentata, finché, con un colpo di scena, Letta è costretto a dare le dimissioni e a lasciare la guida dell’esecutivo a Matteo Renzi, nel frattempo divenuto leader del Pd sostenuto da un’ampia maggioranza dei consensi e confortato dallo straordinario successo del Pd alle elezioni europee del maggio 2014 (oltre il 41%).
Comincia l’era del “rottamatore”, il quale non esita a stipulare un accordo (“patto del Nazareno”) con Berlusconi, che rappresenta in Parlamento il gruppo maggiore dell’opposizione, al fine di approdare con il maggior consenso possibile a riforme istituzionali: riforma elettorale, fine del sistema bicamerale perfetto (trasformazione del Senato in sede di rappresentanza delle regioni senza ruolo legislativo). Ciò provoca dissensi e divisioni sia nell’area del Pd che in quella del partito berlusconiano. Diventa sempre più labile e contestata la leadership di Berlusconi nel centro-destra, mentre risorge e cresce la Lega sotto la guida di Matteo Salvini. Si crea così – tra “grillini” e Lega – una preoccupante area populista, aggregatrice di scontento da destra a sinistra.
Dissensi e divisioni si aggravano, anche all’interno del Pd, con il procedere della discussione sulla nuova legge elettorale, denominata “Italicum”, che alla fine viene approvata (4 maggio 2015) in pratica dalla sola maggioranza del Pd (uscita dalla Camera delle opposizioni, voto contrario della minoranza Pd).

La scena cambia anche nei rapporti con il sindacato: fine dell’era della concertazione (peraltro già annunciata con il governo Monti); il governo di Renzi rivendica la primaria responsabilità nelle decisioni politiche; i sindacati, e comunque tutti i soggetti rappresentativi della cosiddetta società civile, vanno sì ascoltati, ma non coinvolti in confronti negoziali finalizzati a decisioni politiche. Il contrasto è forte soprattutto sulla riforma del mercato del lavoro (Jobs Act, ridimensionamento dell’articolo 18, contratto a tutele crescenti, ecc.); il conflitto è frontale con la Cgil, forte con la Uil, meno aspro con la Cisl che – fedele alla sua cultura – non lesina le critiche di sostanza ma è interessata a ottenere risultati concreti. Sostanziale invece il consenso della Confindustria e delle associazioni datoriali in generale.

Il 2016 è dominato dall’aspra contesa sul referendum per la riforma costituzionale, con al centro la soppressione del Senato, passando da un bicameralismo “perfetto” a uno “differenziato” con l’obiettivo di semplificare e rendere più efficiente il processo legislativo. La proposta di riforma era nata su iniziativa del governo guidato da Matteo Renzi, che aveva legato al risultato del referendum il proprio destino politico. Con la sconfitta della proposta referendaria nella consultazione del 4 dicembre 2016, Renzi rassegna le dimissioni; di lì a poco, il 13 e 14 dicembre, il nuovo governo guidato da Paolo Gentiloni ottiene la fiducia della Camera e del Senato. Ma la crisi politica è sempre nell’aria: un anno dopo, il 28 dicembre 2017, il Presidente della Repubblica firma il decreto di scioglimento delle Camere. 

Si va così alle elezioni politiche, che si svolgono il 4 marzo 2018, tenute con un nuovo sistema elettorale chiamato “Rosatellum” dal nome del suo ideatore Ettore Rosato (già Pd, poi Italia Viva). Dalle urne esce un vero e proprio cataclisma politico: il Movimento 5 Stelle si afferma come la lista più votata (32% di preferenze) mentre la coalizione più votata è quella di centro-destra (37% circa  dei voti). Il 1º giugno 2018 giura il Governo Conte 1, formato da una coalizione tra Cinque Stelle e Lega (dai colori di riferimento dei due partiti, viene denominato “Governo giallo-verde”) e guidato da un premier venuto da fuori della politica, l’avvocato e professore universitario Giuseppe Conte. Lo scenario cambia nuovamente con le elezioni europee del 1919, con il ribaltamento dei rapporti di forza tra le due formazioni di governo: Lega a oltre il 34%, 5 Stelle appena al 17%. Le tensioni tra i due partiti crescono fino alla rottura, segnata dalla ormai celebre requisitoria di Conte contro Salvini nell’agosto 2019. Il 20 agosto di quell’anno Conte rassegna le dimissioni, ma resta in sella come capo di un nuovo governo di segno opposto – e di colore diverso: giallo-rosso – che mette insieme 5 Stelle e Pd + sinistra residua (il “Conte 2”). .

Su questa tormentata scena politica, complicata da una serie di emergenze sociali (immigrazione “selvaggia”, crisi aziendali, eccetera) irrompe il tornado dell‘epidemia del virus Covid 19. La gestione della crisi – insieme sanitaria, sociale e produttiva – dilaniata da furibonde contrapposizioni (chiusure, crisi aziendali, ribellioni alle misure restrittive, eccetera) non pare più governabile dal quadro politico rappresentato dal Conte 2. Così, il 26 gennaio 2021 Conte rimette il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, con l’uscita dalla maggioranza del partito di Matteo Renzi Italia Viva. Tutto ha l’aria di una manovra combinata, per fornire al Paese una guida all’altezza della grave emergenza. Decisivo è l’intervento del Presidente Mattarella che convoca al Quirinale l’ex presidente della Bce Mario Draghi. Questi accetta l’incarico e il 13 febbraio 2021 il nuovo governo entra in carica, procedendo rapidamente a una massiccia ed efficace riorganizzazione della lotta alla pandemia. I positivi risultati ottenuti contribuiscono a promuovere un’immagine positiva dell’Italia in campo internazionale, mentre si annunciano incoraggianti segni di ripresa sul piano economico. Ma restano sempre alte le tensioni sociali, alimentate da ampie sacche di protesta contro le restrizioni imposte dall’emergenza epidemica. Soprattutto, nubi minacciose si affacciano sull’orizzonte dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, agli inizi del 2022.