Taranto non diventi una “Bagnoli 2” di Bentivogli – l’Unità
Taranto non diventi una “Bagnoli 2”
di Marco Bentivogli
Taranto e Bagnoli hanno molti punti in comune: sono nel Sud e sono aree a grave rischio ambientale. In esse si sono concentrate acciaierie, vetrerie, a Taranto anche raffinerie, a Bagnoli l’Eternit.
Dall’inizio del ‘900, a metà del secolo a Taranto, c’erano state Ilva, Montecatini, poi Cementir, Eternit. Nel 1970 il Consiglio comunale di Bagnoli adotta il nuovo piano regolatore generale. Il piano verrà approvato nel 1972 dal Ministero dei Lavori pubblici, con modifiche che riguardano, tra l’altro, anche l’insediamento industriale di Bagnoli, per il quale viene stabilito che il 30% della superficie totale occupata lungo la fascia costiera venga destinata a verde attrezzato con impianti turistici ed il restante 70% ad attività di tipo manifatturiero, ad alto contenuto tecnologico, nonché impianti ed attrezzature per la ricerca applicata all’industria con l’esclusione di industrie nocive ed inquinanti.
Un bel programma che però è rimasto sulla carta. Nel 1985 chiude lo stabilimento dell’Eternit che era già stato messo a rischio dai bombardamenti tedeschi nella Seconda Guerra mondiale.
Nel 1988 chiude l’Ilva, che viene smontata e spedita in Cina. Da questa chiusura dipende quella della Cementir, venendo meno la fornitura della loppa di altoforno, che converte gli impianti per renderli idonei all’utilizzo della pozzolana. Nel 1991 la Federconsorzi cessa ogni attività e viene posta in liquidazione. Da quegli anni solo un terzo dell’area è stata bonificata. Ci sono tutt’ora rifiuti tossici. Un capolavoro del benaltrismo italiano che ha portato un’area ad alto impatto ambientale ad un deserto di inquinamento, camorra e disoccupazione.
E dopo 28 anni, fatti di mille piani di riqualificazione dell’area, alcuni partiti ancor prima delle chiusure e mai realizzati, finalmente la scorsa settimana si arriva ad un piano.
La vicenda napoletana è emblematica in questo. Una sfida difficile, in una situazione ferma da troppi anni e che ha visto ritardi e sprechi accumularsi in una mala gestione evidente cui serviva mettere fine. Una sfida in cui le istituzioni devono saper collaborare, a tutti i livelli e non ricercare visibilità nello scontro e nella polemica che in Italia distrugge tutte le speranze.
A fronte dell’iniziativa del Governo, dopo 28 anni di disimpegno, il sindaco di Napoli – come hanno fatto anche molti politici tarantini – non ha saputo fare altro, purtroppo, che replicare questo vecchio schema.
È una questione di cultura istituzionale e di confusione nella percezione e nell’esercizio del proprio ruolo, dimenticando che le istituzioni, anche locali, hanno non la facoltà, ma il dovere di gestire i problemi e trovare le soluzioni.
Mi sono stufato di trovarmi in tutte le vertenze industriali istituzioni locali che ci appoggiano con posizioni oltranziste, dimenticando che spesso la loro azione (o spesso la mancanza di essa) è stata la concausa di molte crisi.
Anche a Taranto dal 1971 si manifesta per l’ambiente. Un ambiente deturpato da un industrialismo ottocentesco, da una parte di ambientalismo che non crede nella possibilità di rendere ecosostenibili le imprese corroborati da una classe politica locale che si è schierata o con i Riva o contro la fabbrica. Uno scontro che, diversamente dal resto del mondo, ha dato visibilità ai contendenti e fatto litigare ambiente e acciaio a spese di lavoratori e cittadini. Per questo abbiamo sostenuto, come avviene in tutto il mondo, che va responsabilizzato chi ha prodotto inquinando senza far pagare le persone oltre che con l’inquinamento con la disoccupazione.
Ecco, Bagnoli e Taranto hanno questo in comune: una classe politica locale golosa di contrapposizioni perché è l’unico paravento alla loro irresponsabilità di gestione, perché nasconde quanto avrebbero dovuto fare e non hanno mai saputo né voluto fare. Che però è quello per cui sono votati. Taranto non diventi, quindi, una Bagnoli 2. Trentotto anni di disoccupazione, inquinamento e Camorra sarebbero fatali.