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*Tra sharing e gig economy il lavoro cambia pelle.
Una sfida anche per il sindacato?

di Augusto Bisegna e Carlo D’Onofrio

*Articolo pubblicato il 5-6-7 novembre 2016 su Formiche.net in tre parti http://formiche.net/2016/11/05/lvoro-sharing-gig-economy/ Scarica PDF Articolo

Anche in Italia si comincia a parlare di gig economy. Merito o colpa: dipende dai punti di vista – del caso Foodora, la start up tedesca nata nel 2014 messa sotto accusa per le paghe troppo basse dei rider, i ragazzi addetti alla consegna dei pasti a bordo delle loro bici.
Foodora è un’azienda di digital takeaway: mette in contatto clienti e ristoratori che aderiscono alla sua piattaforma con un semplice clic della sua app. Pizzerie, ristoranti etnici o tradizionali: tutti on demand, tutti a portata di smartphone. Un’idea cui Foodora ha aggiunto, grazie all’impiego delle due ruote, il tocco della sostenibilità ambientale. I risultati sono arrivati presto: gli ordini crescono del 75% al mese e anche la copertura del servizio (ora siamo a 36 città in 10 paesi) si sta allargando velocemente.
Ci troviamo dunque di fronte ad un business vero, non ad un passatempo per “smanettoni”. Nulla di male, se non fosse che a Torino, epicentro della protesta, Foodora ha portato sotto i 3 euro la retribuzione per ogni consegna, mentre in Germania ne sborsa 9. Inoltre il piglio arrogante con cui ha replicato alle rimostranze dei rider (“Foodora non è un lavoro per sbarcare il lunario, ma un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”, questa sulle prime la reazione dei vertici) ha inasprito il contenzioso.

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Un po’ di storia, come nasce la sharing economy

Ma chi sono in realtà i lavoratori che hanno sfidato le ire dell’azienda organizzando in proprio la protesta? Negli Stati Uniti li chiamano gig worker, dal colloquiale gigger, neologismo che in italiano suona come “chi fa il lavoretto”, termine familiare a tanti giovani (e di questi tempi non solo ai giovani) che arrotondano, non di rado in nero, le loro magre entrate.
In realtà Foodora, ma lo stesso discorso vale per le altre piattaforme che offrono lavoretti “gig”, rappresenta il caso più appariscente di quella che sarebbe forse più corretto chiamare economia on demand, a sua volta solo una delle molte derivazioni della sharing economy, l’economia della “condivisione” che abbatte la barriera tra servizi e industria (l’esempio classico è quello del car sharing: il consumatore non acquista la proprietà del veicolo ma un diritto all’uso), un fenomeno con cui abbiamo imparato a familiarizzare negli ultimi anni. Questo nonostante la sua portata rivoluzionaria sia stata intuita molto tempo addietro. Risale al 1978 la prima definizione teorica del “consumo collaborativo”, coniata da Marcus Felson e Joe L. Spaeth nell’articolo “Community Structure and Collaborative Consumption: A routine activity approach” pubblicato nel American Behavioral Scientist. Un’intuizione ripresa poi anche da Jeremy Rifkin nel saggio “L’era dell’accesso”, nel quale l’economista preconizza il cambiamento del ruolo della proprietà privata e dei sui effetti sulla società.
Quelle analisi erano forse troppo in anticipo sui tempi, ma a rileggerle oggi è difficile negare che i loro autori vedessero lontano. Di certo il ruolo della tecnologia è stato determinante perché l’economia della condivisione lasciasse le pagine dei libri per atterrare tra noi: senza lo sviluppo della rete prima e delle tecnologie abilitanti poi (dai big data al cloud computering…), senza l’enorme diffusione dei device mobili (smartphone e tablet), sarebbe impossibile connettere milioni di persone alle piattaforme digitali che rappresentano l’ossatura della sharing economy.
La gig economy rientra in questo quadro. Tra i leader mondiali del settore Fiverr, una società con base a Tel Aviv, ha fatto dei “lavoretti” il suo marchio. La piattaforma permette di acquistare e vendere prestazioni e servizi a prezzi modestissimi: si parte da 5 euro, Fiverr trattiene il 20% e l’unica forma di garanzia sulla qualità dei servizi acquistati è costituita dalle recensioni degli altri consumatori. E’ il paradiso, o l’inferno se volete, dei freelance.
Ci sono poi app che portano la spesa a domicilio, come Istacart, che fanno consulenze legali, come Upcounsel, o che strizzano l’occhio al gourmet che è in ognuno di noi, come Gnammo, la prima piattaforma italiana dedicata al Social Eating (cuochi on-demand).
Tuttavia la sharing economy non ha una dimensione esclusivamente immateriale. In alcuni casi, come quello del coworking, a venir condiviso è uno spazio fisico, il luogo di lavoro. Gli studi più recenti sullo smart working sostengono che nel 2010 il 75% dei lavori si svolgerà lontano da uffici e fabbriche; di qui il coworking, l’esigenza di avere a disposizione spazi condivisi di lavoro.

Distruzione o creazione di ricchezza?

Basta questa rapida carrellata per rendersi contro della varietà che contraddistingue l’offerta. Ma al fondo non si può non notare come accanto al nuovo il vecchio non scompaia. Cambia il modello di business, non il contenuto della prestazione; cambiano le modalità di erogazione, non le esigenze dei consumatori (anche se bisognerà studiare quanto e come in realtà il nuovo modello contribuisca a creare nuovi bisogni). La vera differenza , semmai, risiede nella dimensione di mercato, assai più vasta e potenzialmente globale, in cui vengono sospinti attraverso la rete servizi e mestieri che finora sono stati confinati in un bacino circoscritto.
Il genio “disruptive” che molti ravvisano nell’economia on demand insomma esiste, si peccherebbe però di superficialità limitandosi a questa constatazione senza sottolineare le opportunità di lavoro e crescita che essa offre.
Sarebbe anche sbagliato non sottolinearne, accanto al potenziale di disgregazione, alcuni spunti comunitari, la sua affinità, ad esempio, col principio mutualistico che sta alla base dell’esperienza cooperativa o con il modello dell’impresa sociale.
Prima di farsi risucchiare dal dibattito tra entusiasti e catastrofisti, sarà bene comunque tenere a mente le proporzioni economiche del fenomeno. Uno studio elaborato da Price Waterhouse Coopers calcola che in Europa il giro d’affari legato alla sharing economy ammonterà a 570 miliardi di euro entro il 2025. E la Commissione Europea, nelle linee – guida emanate lo scorso giugno, valuta in 28 miliardi il reddito lordo generato nel 2015 dal settore.
Quanto agli Stati Uniti, un altro studio, stavolta di Bloomberg, analizza in profondità le ricadute dell’economia della condivisione sulle abitudini dei consumatori e più in generale sull’economia americana.
E l’Italia? Un censimento vero e proprio non c’è, ma in mancanza di dati statistici soccorre una ricerca dell‘Università di Pavia commissionata da Phd Italia, la prima del genere, che stima in 3,5 miliardi il giro d’affari della sharing economy nel 2015. Lo scenario più prudente prevede una crescita a 8,8 miliardi nel 2020 e a 14,1 nel 2015 , mentre quello più ottimistico calcola a 10,5 e a 25,1 miliardi il valore alle stesse scadenze. I ricercatori coordinati dal professor Luciano Canova hanno preso in considerazione anche il rischio bolla: in questo caso ad un picco di 14,1 miliardi nel 2019 potrebbe seguire un brusco ridimensionamento (4 miliardi nel 2025). Su queste coordinate incerte farà forse un po’ di luce Sharitaly, evento giunto alla quarta edizione che si tiene a Milano il 15 e 16 novembre.
Intanto si è mosso anche il Parlamento. Sulla falsariga delle indicazioni fornite da Bruxelles, l’Intergruppo per l’innovazione ha elaborato un progetto di legge che mira a regolamentare le nuove piattaforme digitali. Qualcuno lo ha già battezzato Sharing Economy Act.

Un nuovo paradigma

Senza dubbio l’interrogativo più rilevante riguarda però la compatibilità con la legislazione fiscale e del lavoro. Come garantire la concorrenza evitando il dumping? Come far sì che queste imprese, seguendo l’esempio delle “sorelle maggiori” di internet, non ricorrano all’arbitraggio fiscale tra gli stati per eludere le tasse?
La verità è che siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma i cui contorni ancora non sono chiari. Il passaggio dal regime di proprietà, fondato sull’idea di distribuzione capillare della titolarità dei beni, al regime dell’accesso, basato sul principio che la rete rende disponibili beni, lavoro e servizi, cambia radicalmente la nozione di capitalismo.

Politica e sindacato di fronte al cambiamento

Sul fronte sociale, ad esempio, tendono a sfumare i confini tra le categorie di lavoro dipendente e lavoro autonomo. Pochi giorni fa i giudici del tribunale di Londra hanno stabilito che i tassisti di Uber non vanno considerati lavoratori autonomi ma a tutti gli effetti dipendenti . Nonostante questa battuta d’arresto, è però difficile pensare che l’avanzata di un gigante da 40 miliardi di dollari, attivo ormai in 58 paesi, possa venir arrestata a colpi di sentenze. Anche Airbnb incontra forti resistenze: lo scontro più duro è con lo Stato di New York, che di fatto ne ha decretato la messa al bando (ma la battaglia legale è solo agli inizi).
Le difficoltà che incontrano i governi con Uber e Airbnb sono in un certo senso simili a quelle che evidenziano i sindacati nel rappresentare, culturalmente prima che organizzativamente, il tipo nuovo di lavoratore che avanza con la sharing economy. È a queste difficoltà che allude il leader della Fim Cisl Marco Bentivogli quando, di fronte al caso Foodora a Omnibus su La7, osserva che proporsi di arginare l’innovazione è come “fermare l’acqua con le mani”.
Fuor di metafora, catalogare con vecchie categorie i nuovi lavoratori, cercare di ricondurre tutto allo schema del lavoro subordinato, sarebbe in prospettiva illusorio. Piuttosto il sindacato, secondo Bentivogli, ha bisogno di mettersi in discussione se vuole allargare il “mercato” della rappresentanza. In fondo i rider di Foodora con la loro protesta hanno dimostrato che l’esigenza di organizzarsi collettivamente e in modo solidaristico per tutelare i propri diritti con la sharing economy non scompare, anzi. Ma perché la prossima volta si rivolgano ad un sindacalista è necessario che molte cose cambino.

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