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Bangladesh: liberare subito i sindacalisti e lavoratori incarcerati

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Immaginate di essere privati della libertà e sbattuti in carcere. La vostra colpa e’ di aver promosso o partecipato ad uno sciopero, il cui scopo era di aumentare un salario minimo di soli 67 dollari al mese, fermo da anni. È il salario più basso della regione. Corrisponde a meno di un quinto del “salario minimo dignitoso”, secondo il rapporto dell’Asia Floor Wage. E non perché in Bangladesh non ci siano state lotte durissime per un salario decente.

A pochi mesi dalla tragedia delle 1.134 vittime del Rana Plaza a Dacca e dalla firma dello storico accordo sulla sicurezza con le aziende e i sindacati internazionali UNI e IndustriALL Global Union, oltre 200 mila operai (in gran parte donne) erano scesi in sciopero. Siamo nell’ottobre del 2013 nelle zone industriali di Gazipur e Savar, nella periferia di Dacca. Scontri con la polizia, arresti e feriti, fabbriche chiuse o incendiate. Almeno trecento fabbriche dell’area erano state bloccate. La lotta sindacale si era scatenata a seguito di trattative inconcludenti con Governo e imprenditori per l’aumento del salario minimo. In quel momento era appena di 38 dollari al mese e i sindacati di dollari ne chiedevano 100. Industriali e Governo risposero con sufficienza, offrendo un aumento di soli 7 dollari e 60 centesimi.

Una proposta offensiva e umiliante, secondo il sindacato di settore United Garments Workers’ Federation che raggruppa oltre una cinquantina di associazioni di lavoratori a livello di imprese. Un’elemosina considerando che l’industria tessile e abbigliamento in Bangladesh ha un giro di affari di oltre venti miliardi di dollari (dati 2012), che rappresenta l’80 per cento dell’export del Paese. Gli oltre quattro milioni di occupati in oltre 4 mila fabbriche ricevono, però, solo le briciole di questa fortuna. La ricchezza prodotta è, in realtà, spartita fra intermediari commerciali, catena della logistica, marchi di abbigliamento e retail come Benetton, Carrefour, Zara, H&M, Wal Mart, Auchan e altri.

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La bassa densità sindacale (percentuale di iscritti) e dispersione organizzativa in tanti piccoli sindacati sono la principale causa della debolezza dei lavoratori. E la sindacalizzazione delle fabbriche continua ad essere ostacolata. Il Governo del Bangladesh, nonostante gli impegni in sede internazionale, intensifica la repressione applicando la legge di emergenza introdotta in tempo di guerra.

Il 10 dicembre 2016, nel distretto industriale di Ashulia vicino a Dacca, scoppia un altro grande sciopero per l’aumento del salario minimo mensile, fissato nel 2015 a 67 dollari (tra i più bassi al mondo). L’associazione imprenditoriale del tessile-abbigliamento reagisce duramente con la serrata in 59 fabbriche e la sospensione arbitraria di mille e seicento lavoratori. La polizia si schiera, accusando di reati penali circa 600 tra attivisti e dirigenti sindacali. Ne incarcera ventisei, di cui diversi leader dei sindacati affiliati a IndustriALL Global Union. Alla Windy Apparels Ltd e Fountain Garments Ltd sono denunciati penalmente 239 operaie/operai e nel Gruppo Hemeem la stessa cosa coinvolge circa mille persone. La maggior parte delle sedi dei sindacati affiliati a IndustriALL sono distrutte o chiuse.

Dopo i 26 sindacalisti e lavoratori del settore tessile ingiustamente incarcerati dal 20 dicembre 2016, la polizia ne imprigiona altri 9 il 10 febbraio di quest’anno. 35 in tutto e si temono altri arresti. Per questo molti dirigenti sindacali stanno passando alla clandestinità e diversi uffici sindacali sono stati chiusi. … La loro unica colpa e’ aver guidato una lotta sacrosanta. E tutto questo mentre settori governativi e militari bengalesi strizzano l’occhio a Daesh. Nei nostri media mainstream… non trovate alcuna di queste notizie.

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Sulla gravità della situazione in Bangladesh è intervenuto sul web e sui social Valter Sanches, segretario generale di IndustriALL Global Union: “Gli avvenimenti di dicembre e l’attuale clima di repressione antisindacale costituiscono un allarmante passo indietro per il Bangladesh. Dobbiamo lottare per liberare le persone incarcerate e difendere i diritti sindacali fondamentali in Bangladesh. Per questo è decisiva la solidarietà internazionale. Ogni giorno che passa la situazione diventa più grave, per cui è importante agire ora”.

IndustriALL sta coordinando con UNI (il sindacato globale dei settori del commercio e del terziario privato) e ITUC (la confederazione internazionale dei sindacati) una campagna per la liberazione immediata degli arrestati e affinché si ponga fine alla repressione dei sindacati: #EveryDayCounts – free jailed union leaders and garment workers in Bangladesh now! #ContiamoOgniGiorno – liberare subito i leader sindacali e i lavoratori tessili incarcerati in Bangladesh!

“The people who make your clothes need your support”, le persone che producono i vostri vestiti hanno bisogno del vostro supporto. E’ il titolo di un video prodotto da IndustriALL e UNI Global a sostegno della campagna internazionale di solidarietà. Specie in Bangladesh queste persone producono per bassissimi salari e in condizioni di rischio estremo. Come la più grande tragedia industriale della storia, il crollo del Rana Plaza, insegna. A quelle persone che producono una t-shirt va una misera parte del prezzo che paghiamo come consumatori in Italia: solo lo 0,6 per cento. Tolti i costi generali, quelli del materiale, dell’energia ecc. (circa un 13 per cento) un 4 per cento va in profitti della fabbrica in Bangladesh. La maggior parte del valore, lungo l’intera supply chain globale, va agli intermediari commerciali (4 per cento), alle aziende di logistica (8 per cento), ai proprietari del marchio (12 per cento) e quasi il 60 per cento ai retail (la distribuzione). L’ultimo anello della catena. L’interfaccia con il consumo finale.

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Tre quarti di ciò che paghiamo va, quindi, a grandi imprese multinazionali americane ed europee, dominanti nel settore dell’abbigliamento e/o della grande distribuzione. È il motivo per cui quanto succede in Bangladesh, nel bene o nel male, ci riguarda. Non solo come persone organizzate sindacalmente, ma anche come consumatori critici e responsabili. E se la pressione verso il Governo del Bangladesh deve continuare e intensificarsi, è altrettanto importante agire verso i grandi marchi dell’abbigliamento e della grande distribuzione. Alcuni di questi, H&M, Inditex (Zara, Massimo Dutti ecc.), C&A e Tchibo, hanno già detto che non saranno presenti al “Dhaka Appare Summit 2017”, l’importante evento internazionale nel settore abbigliamento che sarà inaugurato dal primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina il prossimo 25 febbraio.

Il fatto che queste aziende abbiano motivato la loro scelta affermando che il clima di repressione contro i sindacati è incompatibile con le loro attività di promozione industriale, è un messaggio chiaro di responsabilità sociale, risultato sia degli Accordi Quadro Globali negoziati e firmati con le Global Union, sia della pressione esercitata dai consumatori.

Trasformare i milioni di lavoratori associati in consumatori (e risparmiatori) etici e responsabili è una delle grandi sfide del sindacalismo nel XXI secolo. Significa avere la capacità di adattarsi alle profonde trasformazioni della produzione e del consumo su scala globale. … E sapersi riposizionare sindacalmente sul piano organizzativo e sull’uso degli strumenti di lotta, agendo con efficacia dove si concentrano ricchezza, poteri e interessi. Esercitando la solidarietà e promovendo giustizia. Il senso e gli scopi per cui il sindacalismo è nato (due secoli fa) agli albori della società industriale e continuerà ad esistere. Rappresentando l’unico vero strumento di riscatto sociale e progresso economico (insieme alla scienza e all’innovazione tecnologica) di milioni e milioni di persone.

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