Philippe Morvannou – La privatizzazione dell’ILVA: le sfide tecnologiche ed industriali per il settore siderurgico europeo
Due gruppi concorrenti candidati per rilevare l’ILVA
Due gruppi multinazionali hanno ufficialmente presentato allo Stato italiano nel marzo 2017 una proposta per rilevare l’ILVA:
- da una parte il gruppo formato da ArcelorMittal, leader della siderurgia mondiale, assieme a Marcegaglia, produttore di tubi di origine italiana, con percentuali di partecipazione rispettivamente dell’85% e del 15%;
- dall’altra parte un consorzio denominato AcciaItalia, composto per quanto riguarda la parte industriale da Arvedi e da JSW, e sostenuto sul piano finanziario dal potere pubblico italiano attraverso la Cassa Depositi e Prestiti e dal miliardario Del Vecchio, proprietario di Luxottica.
Con la cessione dell’ILVA si aprono due possibili strade per l’industria siderurgica europea: da un lato potrebbe venire stravolto l’equilibrio concorrenziale per quanto riguarda il mercato dei prodotti piatti in carbonio, dall’altro invece potrebbe essere mantenuta una configurazione industriale e sociale paragonabile a quella ad oggi conosciuta.
Un’industria ed i suoi lavoratori salvati da una nazionalizzazione temporanea
ILVA è un’industria che comprende 4 siti, il principale dei quali a Taranto; è una impresa siderurgica integrata che trasforma il minerale di ferro in acciaio piatto nella provincia pugliese per poi lavorarne una parte in altri tre siti produttivi posti più a nord nella penisola (Patrica[1], Novi e Genova), di particolare rilevanza per l’industria automobilistica.
Primo sito siderurgico europeo per capacità di produzione, superando i 10 milioni di tonnellate annue, Taranto ha dovuto rallentare la propria produzione a causa di una catastrofica gestione ambientale condotta da azionisti privati, la famiglia Riva che, con l’inquinamento e la contaminazione dell’ambiente circostante prodotti, ha causato numerose vittime tra la popolazione locale, come riconosciuto nel 2014 dai tribunali italiani con sentenze divenute celebri.
Più di 10.000 lavoratori diretti e più di 20.000 della filiera indiretta hanno visto messi a rischio i proprio posti di lavoro.
Suscitando l’incomprensione di una parte dell’associazione di settore in Europa, lo Stato ha proceduto allora a una nazionalizzazione temporanea per salvare il sito industriale e i suoi dipendenti. Ora, passati tre anni, s’impegna in un progetto di privatizzazione che oltre alla ripresa degli attivi e dei fondi commerciali prevede, come condizione primaria, che si dedichino almeno 1,2 miliardi di euro in investimenti per la messa a norma in materia ambientale, che includano la copertura dei parchi minerari (antracite e minerali di ferro), le cui polveri disperse nell’aria sono nocive per i dintorni dello stabilimento e per chi vi abita.
L’offerta di AcerlorMittal: un contenuto rispondente a logiche finanziarie
Le informazioni sui precisi contenuti dei due piani presentati allo Stato italiano non si conoscono nel dettaglio; solamente ArcelorMittal insieme a Marcegaglia ha comunicato ufficialmente la propria offerta.
Offerta che si caratterizza per:
- una produzione limitata a 6 milioni di tonnellate di bramme a Taranto nel 2018, completato da una fornitura esterna per 4 milioni di tonnellate, che porterà il totale a 9,5 milioni di tonnellate di prodotti finiti in acciaio; cifre che potranno arrivare a 8 milioni di tonnellate di produzione locale e 2 milioni di tonnellate di bramme prodotte esternamente;
- 2,3 miliardi di euro di investimenti, inclusi 1,1 miliardi di euro di investimenti per la messa a norma ambientale voluta dal Governo italiano e 1,2 miliardi di investimenti industriali che comprendono il rifacimento dell’altoforno 5, il più capiente ad oggi fermo;
- l’attivazione di una linea di credito di 5 miliardi di euro;
- l’attivazione di un centro di ricerca e sviluppo con un investimento iniziale di 10 milioni di euro.
Questa proposta appare perfettamente definita sul piano finanziario e strategico e rassicurante sulla valorizzazione industriale del sito, ma a un livello d’impiego che sarà inevitabilmente rivisto al ribasso, considerata anche solo la riduzione delle capacità di produzione che il progetto presentato da ArcelorMittal e Marcegaglia prevede.
In un contesto in cui l’Unione Europea importa già molte bramme prodotte al di fuori del proprio territorio, questo piano industriale rafforzerebbe la dipendenza dei paesi europei dall’acciaio di provenienza extraeuropea (Brasile, Russia..) in maniera significativa.
Tuttavia l’operazione rientrerebbe alla perfezione nella strategia di fornitura per l’industria automobilistica sviluppata da ArcelorMittal, al fine di sostenere gli insediamenti dell’industria dell’automobile in crescita nei mercati dei paesi del bacino mediterraneo. Il gruppo diverrebbe il primo produttore di prodotti piatti in ghisa pressofusa della regione. Se questa operazione di concentrazione dovesse vedere la luce porrebbe senza dubbio dei problemi dovuti alla posizione dominante che verrebbe ad assumere il gruppo sul mercato dei prodotti laminati piani per automobili. Il gruppo dovrà allora trovare delle soluzioni per correggere questa distorsione del mercato.
In questo contesto, il futuro dello stabilimento di Fos sur Mer piuttosto che di Gijon in seno al gruppo ArcelorMittal verrebbero messi in discussione.[2]
A meno che non si consideri la necessità di prevedere la costituzione di alcuni “campioni europei”, con un mercato di riferimento che diventerebbe allora mondiale e che vedrebbe la Cina, primo produttore mondiale, detenere una quota di mercato nell’Europa del sud vicina al 20%.
L’offerta JWS AcciaItalia: una proposta tecnologica per ridurre l’impatto impiantistico
Di contro, il consorzio formato da Arvedi (10%) e soprattutto JWS (35%), supportato finanziariamente dall’alleanza pubblico-privata italiana (55%) propone:
- di portare la produzione di Taranto a 12 milioni di tonnellate nel medio termine, 4 delle quali prodotte da forni elettrici alimentati a gas, raddoppiando la produzione di ferro a riduzione diretta rispetto ad ora;
- la proposta si fonda sulla possibilità di realizzare una doppia sostituzione parziale del carbone con il gas e sulla costruzione di quattro forni elettrici, che rimpiazzino almeno in parte la ghisa prodotta dagli altiforni con del minerale di ferro grezzo e/o con il rottame.
Il consorzio italo-indiano ha l’ambizione di modificare la matrice tecnologica dell’impianto di Taranto, sulla base dell’esperienza acquisita in India dalla JSW sul sito di Vijanayagar, che utilizza il sistema tedesco Conarc, una tecnologia che consente una grande flessibilità nell’approvvigionamento di materie prime calde o fredde per i forni elettrici e che rende possibile, insieme ad una alimentazione a gas, una riduzione significativa delle emissioni di Co2 e degli altri gas inquinanti che verranno prodotti a Taranto in futuro.
JSW possiede esperienza nell’utilizzo di queste tecnologie in India, e si dimostra impresa fortemente orientata verso l’utilizzo delle più moderne tecnologie. D’altra parte, se Taranto ed i suoi stabilimenti dovessero continuare ad esistere come gruppo indipendente, non si verrebbe a creare nessun problema di squilibrio della concorrenza e anzi verrebbe rilanciata l’idea che il mercato europeo possa riprendere delle consistenti capacità produttive dopo anni di calo ed arresto.
Per contro, il progetto italo-indiano appare poco definito dal punto di vista finanziario, e l’assenza d’informazioni sul tema sembra un ulteriore segnale di debolezza.
L’indiscrezione, apparsa sulla stampa italiana, di un’offerta di prezzo d’acquisto presentata da ArcelorMittal superiore di 600 milioni confermerebbe quest’ultima impressione.
Conclusione: il futuro passa attraverso il mutamento tecnologico o la concentrazione?
La decisione del Governo italiano è attesa per fine aprile. I sindacati italiani paiono coinvolti nella scelta finale; il 23 di febbraio sarebbe stato trovato un accordo tra il Governo e i sindacati per definire le informazioni e le loro modalità di coinvolgimento. Un primo incontro è stato realizzato a fine marzo al Ministero dello Sviluppo Economico per una valutazione precisa delle due offerte.
Questa decisione diventa vitale in un contesto in cui, malgrado le promesse fatte dallo Stato italiano in apertura del processo di riconfigurazione del sito industriale, sono stati realizzati ben pochi investimenti, tanto che è stato necessario richiedere la cassa integrazione per 5.000 lavoratori del sito.
In conclusione, con il futuro di ILVA si traccia l’avvenire della siderurgia europea. O con la trasformazione del modello industriale di Taranto verso una produzione d’acciaio maggiormente sostenibile, attraverso la sostituzione delle materie prime importate e l’utilizzo di gas naturale come sostituto energetico; oppure con l’integrazione dello stabilimento italiano in un grande gruppo di dimensioni mondiali destinato a diventare il campione europeo dei laminati piani in carbonio per il mercato dell’automobile, realizzando una concentrazione delle produzioni senza precedenti.
[1] Il sito di Pratica (Frosinone) è in fermo tecnico produttivo dal 2012
[2] La questione del mercato di riferimento si pone in maniera diversa a seconda che si prenda a riferimento la totalità del mercato dei prodotti piatti in carbonio o i laminati a caldo in tutta Europa, o se invece si considera solo il mercato del sud Europa; le stime dell’impatto dell’integrazione dello stabilimento di Taranto in ArcelorMittal sono rispettivamente dal 33 al 40% dei prodotti piatti in carbonio sul mercato europeo, secondo il Metal Bulletin, e dal 40 all’85% per il solo mercato del sud Europa.
Philippe Morvannou
responsabile studi Istituto francese Syndex e consulente di industriAll Europe per il settore siderurgico
traduzione dal francese di Alvise Ferronato (Fim-Cisl Vicenza)